La necessità di discutere le basi biologiche della tossicodipendenza non è solamente scientifica, ma anche sociale. Tutt’oggi, le campagne di prevenzione e sensibilizzazione sul problema “droga” procedono su due binari palesemente divergenti: da un lato si denuncia la pericolosità delle droghe per il cervello; dall’altra, si propongono modelli di risoluzione del problema che fanno leva sui rapporti intepersonali, la loro forza e solidità, e la decisione da parte del tossicodipendente di “dare una svolta” alla propria vita in rovina. Questo secondo concetto presuppone un cervello sostanzialmente illeso, che cioè, una volta tolta l’intossicazione corrente, recuperi le potenzialità e le sensibilità alle classiche sollecitazioni morali e umane, che riportano le persone normali “sulla retta via”.
L’essere malattia della tossicodipendenza significa proprio il contrario: la malattia non comporta danni cerebrali collaterali, la malattia si fonda su un danno cerebrale comune a tutti i tossicodipendenti, che è la base del loro recidivismo, del loro comportamento ambivalente, della loro refrattarietà a intraprendere percorsi terapeutici e a concepire un benessere che non sia “drogato”.
La neurobiologia della tossicodipendenza può essere discussa su diversi piani. Si possono descrivere parametri ormonali, psichiatrici o neurologici. La possibilità di fotografare il cervello e selettivamente le parti coinvolte nella tossicodipendenza, con immagini variamente luminose a seconda del livello di attività di questa o quella zona, consente di avere un’idea rapida e incisiva delle differenze tra cervello sano e cervello tossicodipendente.
Naturalmente, le consocenze di base sulla tossicodipendenza sono cliniche. Il primo concetto è che tossicodipendenti non si nasce, ma si diventa. Anche nell’ipotesi che i cervelli dei tossicodipendenti abbiano tutti qualcosa in comune “prima” della tossicodipendenza (cosa che al momento risulta falsa), sicuramente ciò che noi chiamiamo tossicodipendenza accade dopo.
Le sostanze cosiddette d’abuso (cioè che tendono ad essere ricercate con un desiderio crescente) hanno in comune un effetto cerebrale, il rilascio del neurotrasmettitore dopamina in una stazione che mette in comunicazione il cervello “inferiore” (mesencefalo) con alcune aree frontali del cervello “superiore”. Il rilascio di dopamina funziona come un segnale, che ha come conseguenza la fissazione di una memoria: la sostanza merita di essere riutilizzata. Cocaina, alcol, amfetamine, oppiacei, benzodiazepine, cioè sostanze diverse per il tipo di interruttore cerebrale con cui si mettono immediatamente in contatto, e per il tipo di effetti psichici, condividono però due cose: una sensazione di piacere/euforia, e la tendenza a farsi desiderare. Questo crecere del desiderio in forma di memoria si associa poi ad un comportamento di ricerca: la sostanza è piacevole quindi significa che la voglio ancora. Il meccanismo finale, con cui una sostanza è in grado di indurre un comportamento di ricerca, è detto rinforzo. Memoria e rinforzo sono quindi gli effetti di tutte le sostanze d’abuso.
Lo stesso meccanismo è quello degli stimoli piacevoli indiretti, come il cibo, il sesso, e in generale le attività che un individuo giudica piacevoli.
Le sostanze d’abuso, per poter essere “rinforzanti” devono avere sostanzialmente una caratteristica. Arrivare al cervello rapidamente: la rapidità con cui la concentrazione aumenta in determinate aree del cervello, del cervello tutto per semplicità, rende una sostanza piacevole e un’altra neutra. Non conta il tipo di recettore a cui le sostanze si legano, non conta il tempo per cui le sostanze rimangono nel cervello. La variabile è una variabile “cinetica”, cioè la variazione nel tempo delle concentrazioni della sostanze nei fluidi corporei. Le sostanze che “arrivano veloci” sono euforizzanti e potenzialmente tossicomanigene. Le altre no. A volte, la stessa sostanza può essere resa euforizzante e tossicomanigena cambiandone la via di somministrazione, se in questo modo si cambia la cinetica: una sostanza assunta per bocca arriva “lenta” mentre invece iniettata arriva “rapida”. Utilizzando particolari interfacce, per esempio quella polmonare (inalando) si può rendere ancor più euforizzante una sostanza che già lo è per via nasale. Cambiando apposta le caratteristiche chimiche di una sostanza di possono creare varianti che “arrivano più veloci”, come l’eroina rispetto alla morfina. Non è un dicorso di potenza d’azione, perché ad esempio l’eroina è meno potente della morfina. Ma l’eroina arriva più veloce, e quindi in realtà colpisce più duro.
Chi tende ad apprezzare di più le droghe ? Immagini recettoriali (recettori D2 per la dopamina) mostrano che quanto più le “antenne” per la dopamina sono numerose, tanto più spiacevole sarà l’effetto del metilfenidato endovena. Cervelli molto sensibili alla dopamina, forse perché il sistema è sensibilizzato dall’assenza di dopamina, hanno risposte sgradevoli ai farmaci violentemente dopaminergici.
Nei soggetti che già hanno imparato a desiderare il metilfenidato, il livello di desiderio correla con l’attivazione della corteccia orbitofrontale. Curiosamente invece, il placebo inganna soltanto il cervello di chi ha poco desiderio, evocando una sorta di euforia “illusoria”, cosa che non accade in chi ha forte desiderio, e quindi identifica probabilmente subito l’inconsistenza del placebo.
Cosa succede ai cervelli intossicati dalle sostanze d’abuso ? Il sistema che funziona a “dopamina” è offuscato: questo accade verosimilmente come meccanismo di adattamento del sistema recettoriale all’eccesso di dopamina rilasciata, perché sono i recettori ad essere meno espressi. Durante l’astinenza da cocaina, i recettori D2 aumentano, ma a 4 mesi sono ancora grandemente ridotti rispetto al cervello di un soggetto normale.
Mentre gli anni passano, questo effetto di spengimento del sistema D2 aumenta: i cocainomani pià anziani sono quelli con minor numero di recettori. Con l’età in generale i recettori tendono spontaneamente a ridursi anche nelle persone normali, ma nei cocainomani questo processo è accelerato. Un cocainomane di 35 anni ha la stessa situazione cerebrale rispetto ai recettori D2 di un soggetto normale di 55 anni.
Anche l’abuso di oppiacei, che pure utilizzano un recettore diverso e specifico, corrisponde alla medesima alterazione dei recettori D2.
I livelli di trasportatore della dopamina (DAT) sono ridotti negli abusatori di metamfetamina, il che correla con i problemi motori e di memoria presenti in questa categoria di abusatori. Dopo 14 mesi di astinenza dalla metamfetamina, i livelli di trasportatore della dopamina sono ancora inferiori alla norma, anche se nel tempo c’è una tendenza all’aumento.
La cosa interessante nel confronto tra questi due rilievi è che il trasportatore è utilizzato come indicatore di lesione, cioè perdita di materiale cellulare e/o riduzione delle ramificazioni dei neuroni. Il sistema recettoriale D2 è più o meno espresso in maniera elastica sulla superficie di neuroni comunque integri. Il trasportatore segnalerebbe un danno diciamo più esteso, mentre il recettore D2 un danno limitato a sé stesso e reversibile, perché il neurone c’è e può ri-fare i recettori D2, mentre se è morto non può ri-fare il trasportatore DAT. La tempistica di ritorno alla normalità però è lenta anche nel danno recettoriale, per cui la reversibilità teorica del danno è in realtà lenta, per cui a distanza di tempo un danno “organico” ha recuperato quanto un danno funzionale. Se il danno organico non potrà recuperare la totalità neanche in linea teorica, il danno funzionale potrà farlo comunque con estrema lentezza, nel corso di anni. Se nel danno tipo-DAT il recupero è legato alla capacità di ricostituire del materiale perso, nel danno di tipo recettoriale il recupero è all’opposto legato alla capacità di de-costruire una memoria molecolare che tiene fisso il funzionamento del sistema metabolico al modello che è stato “appreso” mediante il rinforzo.
Per quanto riguarda la corteccia orbitofrontale e il giro cingolato, il metabolismo negli abusatori di cocaina appare ridotto. In assenza di stimoli legati alla cocaina il cervello di una persona esposta pesantemente alla cocaina mostra un livello di attività che è ridotto. Dopo 10 giorni di astinenza il cambiamento è minimo, e anche dopo 100 giorni di astinenza il metabolismo della corteccia non corrisponde neanche alla metà di quello di un cervello normale. Per le amfetamine, il ripristino di una funzione normale in condizioni di astinenza non avviene in maniera completa anche a distanza di anni.
Alcune sostanze hanno un’azione che coinvolge non soltanto il sistema della dopamina ma anche altri, come l’ecstasy, che “colpisce” in maniera selettiva il sistema della serotonina. La riduzione dell’arborizzazione dei neuroni serotoninergici della corteccia, persiste in maniera evidente, seppure con una lenta tendenza al miglioramento, anche dopo 7 anni di astinenza.
Tutti questi reperti si riferiscono però all’effetto intossicante delle sostanze d’abuso, senza implicare che queste alterazioni comprendano quelle legate alla tossicodipendenza.
Se il cervello dei cocainomani è relativamente spento in condizioni di base, quando invece è stimolato da immagini che rievocano la cocaina, si attiva più del normale. Il rilascio di dopamina è maggiore del previsto, attiva potentemente la memoria del piacere e il comportamento di ricerca. In altre parole, il rinforzo sembra ipersensibile, quasi automatico.
Il cervello degli alcolisti astinenti si comporta allo stesso modo: i recettori oppiacei sono espressi più del normale, come se il cervello stesse “cercando” l’alcol che non c’è. Non trovandolo, emerge desiderio e parte il comportamento di ricerca. Più sono questi recettori, maggiore è il desiderio riferito di bere. Il cervello di chi è astinente dall’alcol quindi non è assolutamente “calmo”, ma è ancora acceso, e quando riceve stimoli specifici mostra una violenza di reazione abnorme nel richiamare il comportamento di ricerca della droga.
Eppure, e qui viene il punto cruciale del discorso, non è affatto detto che in termini assoluti il rilascio di dopamina sia maggiore. In realtà la quantità di dopamina rilascia in risposta al metilfenidato nei cocainomani è minore che nelle persone normali. Questo dovrebbe significare, se i cervelli fossero uguali, che i cocainomani hanno meno ragione di desiderare la cocaina dopo averla assunta, meno di chi la usa ogni tanto. Invece nei fatti è ovviamente l’inverso. Questa minor intensità del rinforzo, in chi usa continuamente cocaina, è abbastanza suggestivo di tossicodipendenza: dovrebbe volere poco, invece vuole molto. A differenza dell’utilizzatore, che più “sente” la sostanza e più la userà, il cocainomane la userà anche se la sente meno del normale. Il suo meccanismo di ricerca della droga è talmente sensibile che basta sfiorarlo con poca dopamina per attivarlo. Il piacere, nella tossicodipendenza, c’è meno di prima, ed è quest’anomalia che distingue appunto l’uso dalla dipendenza. Una prova ulteriore è data da quanto i cocainomani dicono di sentire e di desiderare il metilfenidato endovena: rispetto alle persone normali lo sentono di meno, e lo desiderano di più. Questa discrepanza è, in maniera molto semplice, la tossicodipendenza, ammesso che ovviamente stiamo parlando di un comportamento stabile o recidivante nel tempo, e non di una fase transitoria a cui seguirà la fine dell’uso di droghe. Molte persone, giunte con un cervello che risponde in maniera paradossale, cioè desidera ancora nonostante senta di meno, realizzeranno che non vale più la pena, ma per un pò insisteranno per la memoria del piacere passato. Altri invece non si fermeranno, ma anzi conserveranno l’idea forte che il piacere deriva dalla sostanza, o meglio che il piacere futuro deriverà dalla sostanza.
Alcuni autori hanno proposto che la riduzione dell’attività di corteccia frontale nel tossicodipendente sia un correlato della mancanza di un freno inibitorio sul comportamento, come se la sostanza danneggiasse i centri inibitori sulle condotte appetitive. Questo meccanismo potrebbe essere vero, ma dipendere da un’azione indiretta: l’ipertrofia del circuito che unisce la memoria del piacere al comportamento di ricerca, cioè il circuito del rinforzo, potrebbe crescere a dismisura e condizionare in senso inibitorio altre aree del cervello, che verrebbero offuscate in quanto “antagoniste”. Il senso ultimo di ciò sarebbe la facilitazione del compito appreso dal circuito di rinforzo. I tossicomani, clinicamente parlando, non sembrano perdere i meccanismi inibitori, ma piuttosto li conservano come funzioni “orfane”, inutili, “buoni propositi” senza poter neurofunzionale. Il grado di crescita del circuito del rinforzo corrisponde a ciò che chiamiamo salienza, cioè l’importanza relativa, la priorità delle varie azioni. La salienza della ricerca della droga è per il tossicodipendente abbastanza cresciuta da non risentire più di altro, e si autoalimenta “con poco o niente”.
Lo stesso può accadere delle memorie positive e negative, chiamate queste ultime rinforzi negativi. Probabilmente queste sono per lo più memorie “lente”, mentre la memoria alla base del rinforzo è “rapida”, ma potrebbe anche darsi che la memoria del rinforzo, dominante perché prima ad entrare in gioco, offuschi le memorie negative, vissute con scarsa “salienza”.
In conclusione, la diagnosi clinica rimane la più semplice e diretta per individuare la tossicodipendenza, con il conforto che le immagini neurofunzionali non mancano di fornire elementi suggestivi di una differenza tra uso e tossicodipendenza. I centri coinvolti nella tossicodipendenza sono meno estesi di quelli “danneggiati” dalle droghe, meno visibili perché fondamentalmente espressi non a livello motorio o prestazionale. Nel momento in cui si manfestano, il soggetto è già alla ricerca della sostanza.
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