La dipendenza è una condizione che ruota intorno al piacere. Non ruota intorno alla sofferenza, come può essere dipinta o immaginata. Le persone ne soffrono, e ne soffrono molto, ma non è una malattia che deriva o si basa sul meccanismo di gestione della sofferenza. Al contrario, inizia con il piacere: le droghe “rompono” la capacità di gestirsi il piacere, o meglio la voglia di piacere. Il cervello è più preparato a resistere al dolore che non a gestire la voglia.
Esiste un meccanismo analgesico efficiente, che in casi estremi permette di non sentire il dolore di ferite se la situazione impone invece di continuare a lottare o di fuggire. Addirittura ci sono persone che sfruttano il meccanismo del dolore perché stimolando una reazione al dolore si produce un temporaneo stato di quiete, per un meccanismo neuro-chimico.
Invece, a quanto pare il sistema che garantisce la capacità di distaccarsi da un legame di piacere, di contenere la voglia è molto più fragile. Forse perché nella natura l’uomo è un essere che vuole, e che se necessario non deve soffrire per poter continuare a volere. E’ volendo che si riproduce, è volendo che si nutre, con la fame come meccanismo di emergenza ma l’appetito, la voglia di mangiare, come motore di base.
Vediamo come la voglia fa “tilt” nelle dipendenze. Alcuni stimoli (una droga ad esempio) producono stati che le persone definiscono gradevoli. Fin qui niente di strano. Non è per questo che si innesca la dipendenza. Lo stimolo, oltre a piacere, fa qualcos’altro, cioè si rinforza da solo: aumenta la probabilità che la persona lo cerchi di nuovo, e questo accade perché la persona si ritrova a “desiderarlo”. Il desiderio non riguarda tanto l’effetto che lo stimolo ha prodotto, ma il fatto di consumarlo, il desiderio di averlo e consumarlo. Accadrebbe anche a cose normali che facendo una cosa piacevole si desideri ancora, ma questo tipo di desiderio passa attraverso il ricordo del piacere provato. Esiste anche una via indipendente, una via che funziona anche al di là del piacere provato, e che cresce anche quando il piacere provato sparisce, si riduce, si corrompe. Nelle dipendenze accade che la voglia di ripetere lo stimolo cresca anche quando la persona sta provando a evitarlo, e anzi vuole proprio escluderlo dalla propria vita perché ormai divenuto dannoso, pericoloso e problematico. Chi è dipendente sperimenta quindi questa strana dissociazione: volere da una parte, e piacere da un’altra parte, spesso ormai non si sa più dove. Anziché cercarlo comunque altrove, la persona cerca il piacere nella direzione in cui lo spinge la voglia, quindi lo cerca come se gli dovesse arrivare da quello stimolo a cui è molto legata, anche se razionalmente sa bene che così non è e non sarà.
Il craving (smania) è la versione patologica del desiderio: il desiderio che non risponde più al piacere. Non lo presuppone, non lo evoca più, non cade con l’assenza di piacere. In termini tecnici si dice che una dipendenza si ha quando il “liking” (piacere) non va più a braccetto con il “wanting” (voglia), perché la voglia procede da sola e in una direzione. La voglia in questo caso è diventata “craving” (desiderio patologico). E’ ovvio che un desiderio non più controllato, e che non si regola più in base al piacere, produrrà alla fine sofferenza e vuoto.
Nella riabilitazione e nella gestione di una ricaduta, la persona con dipendenza non manifesta quindi un deficit, una carenza, ma un eccesso, un esubero. La funzione che è alla base della ricaduta non è un motore che si spenge e fa “cadere” la persona nella droga, è un motore che si surriscalda e spinge la persona verso la droga. Il dramma delle ricadute è proprio l’impossibilità di frenare una voglia.
E’ importante capire questo punto anche per capire come funzionano le cure per le dipendenze. Alcuni credono che curare una persona dipendente significhi eliminargli una sofferenza di fondo, e tolta questa la persona smetterà di essere dipendente. Non è così. Alcuni credono invece che nel curare le dipendenze si finisce per riprodurre un effetto “sostitutivo” con una sostanza diversa ma simile, cosicché la persona è distolta dalla dipendenza, ma per essere dirottata comunque su uno stato mentale alterato. Non è così. Un esempio pratico sono le terapie più “rodate” della dipendenza da oppiacei, metadone e buprenorfina. Queste sostanze non soddisfano il “liking”, cioè non danno piacere e quindi distolgono la persona dall’eroina. Il loro funzionamento consiste nel ridurre il “wanting” diretto all’eroina, cosicché la persona passa dal “craving” ad un desiderio normale, come quello che aveva all’inizio. Così facendo, ha la libertà di scegliere di non farsi. Questo procedimento richiede specifiche dosi e una certa durata prima che il cervello “risponda”. Le dosi di medicina non corrispondono a quelle che la persona si faceva di droga, e neanche a quelle che servono per evitare l’astinenza: sono dosi che servono per un effetto diverso. La cura non è mirata al perché una persona ha iniziato a drogarsi, né a contrastare il suo rapporto con il piacere della droga, che spesso non c’è, ma a impedire che la droga mantenga la voglia di se stessa, e a spegnere la voglia che comunque ormai si mantiene da sola, richiamando la persona verso la droga. Queste terapie quindi, impropriamente descritte con il termine di “sostitutive” sono invece chiamate terapie anti-craving.
La disintossicazione, tanto mitizzata, non incide sulla voglia (wanting) spontanea, e neanche sulla voglia che ogni volta ritorna con l’uso della sostanza. Infatti, disintossicare una persona significa riportarlo ad una situazione in cui sente di più l’effetto della sostanza, perché non è più assuefatto, e quindi la “voglia” che scatta con l’effetto è amplificata. Ma come già detto, anche togliendo questa componente, cioè anche ammettendo che la sostanza sia ormai “acqua fresca”, la voglia rimane viva. Le persone che ad esempio sono trattate con il naltrexone, una sostanza che semplicemente blocca gli effetti dell’eroina, reagiscono quasi sempre smettendo di assumerlo, o cercando di forzare il blocco con dosi elevate di eroina, rischiando in questo modo l’overdose.
La dipendenza non è quindi una malattia che riguarda l’effetto mentale delle droghe in generale, ma riguarda l’effetto delle droghe su una parte specifica del cervello. L’elemento patologico delle droghe che danno dipendenza non sta in un effetto mentale “diabolico”, ma in una proprietà, questa magari sì “diabolica”, di fissare una memoria sproporzionata rispetto al piacere, in maniera tale che la persona investe nella voglia di usare droghe molto più di quanto riceve, e ad un certo punto investe molto più di quanto umanamente sia possibile aspettarsi in termini di piacere. Dalla differenza tra voglia e piacere la situazione di frustrazione, di rabbia e di infelicità delle persone con dipendenza, e la perdita della capacità di utilizzare le fonti disponibili per prodursi piacere in maniera concreta.
Voglia e piacere sono funzioni che sono visualizzabili nel cervello con specifiche tecniche, e questo ha consentito di osservare questa distorsione del desiderio indotta da droghe, una specie di voglia parassita che cresce sullo stesso sistema che normalmente permette di passare da un piacere all’altro, di annoiarsi di ciò che perde mordente, di entusiasmarsi per il nuovo senza rischiare di rimanerci legato per sempre. In altre parole, “il libero arbitrio”. Le dipendenze sono per l’appunto il modello della perdita del libero arbitrio sulla volontà di dedicarsi alla propria soddisfazione.
Le cure prevedono una fase di restituzione del libero arbitrio, seguita da una fase preventiva durante cui è importante ricostruire, anche in maniera guidata, rapporti con stimoli nuovi o che si erano persi di vista, per potenziare la parte del cervello che è stata sacrificata dalla dipendenza.
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