Con la parola “oppiacei” ci si riferisce ad una sostanze naturali (per esempio morfina) o sintetiche (per esempio eroina), che producono effetti simili, principalmente uno stato di quiete profonda fino alla perdita di coscienza (narcòsi) accompagnato ad una sensazione di intenso piacere, diffuso in tutto il corpo. Il cervello “sente” queste sostanze attraverso alcuni interruttori e circuiti, che normalmente funzionano con sostanze prodotte dal cervello stesso, dette morfine endogene o endorfine.
In medicina gli oppiacei sono stati inizialmente usati come sedativi e antidolorifici, e più di recente come farmaci contro la tosse.
L’uso regolare produce assuefazione agli effetti, cosicché da una parte è necessario aumentare le dosi per riprodurre gli effetti iniziali, e dall’altra si è soggetti ad un malessere se non si assume la dose successiva entro un certo tempo. Questo malessere è la sindrome d’astinenza, non si verifica soltanto con gli oppiacei, ed è passeggera (giorni), anche se la prima fase è “in crescendo”. L’uso ripetuto è gravato da un rischio piuttosto elevato che si inneschi una tossicodipendenza. Corrono il rischio le persone che utilizzano gli oppiacei per piacere, ma anche chi ne fa uso per ragioni mediche. La tossicodipendenza consiste nella perdita del controllo sull’uso della sostanza, sulla scia di un desiderio urgente e costante, che si attenua solo dopo averla assunta.
L’assuefazione, con il problema dell’astinenza, non è il meccanismo della tossicodipendenza: per far eliminare questo problema sarebbe sufficiente utilizzare la sostanza a dosi decrescenti, “tornando indietro”, per poi usarla normalmente quando l’assuefazione è stata eliminata. Il tossicodipendente non può effettuare questa operazione, poiché non ha controllo sulla sostanza e non può usarla a dosi “minori”, ma semmai maggiori.
Le persone che usano oppiacei lo fanno di solito per piacere, ma l’uso può anche proseguire all’inizio per un effetto benefico degli oppiacei su condizioni di malessere psichico e su vere e proprie malattie psichiche (uso auto-terapico). La tossicodipendenza che poi si sviluppa non è comunque più legata a nessuna ragione particolare, ma esprime semplicemente un cambiamento stabile del rapporto del cervello con la sostanza, con una smania che non si esaurisce e al contrario si ricrea, anche dopo lunghi periodi di interruzione. Tra tutte le tossicodipendenza, quella da oppiacei (nei nostri anni prevalentemente eroina) è quella meglio curabile. Esiste infatti una terapia standard, adatta per la maggior parte dei tossicodipendenti, che consiste nell’assunzione di un farmaco in grado di spengere e tenere spento il desiderio eccessivo per l’eroina. Oltre a ciò, il desiderio residuo tende a scomparire perché l’eroina assunta non produce più effetti, essendo “bloccata” dal farmaco. Per una piccola parte di eroinomani è sufficiente bloccare gli effetti per ottenere, col il tempo e controllando la regolare assunzione, la cessazione dell’uso di eroina. Per la maggioranza è necessario spengere il desiderio per interrompere il comportamento. I farmaci usati a questo scopo sono metadone (il primo e il meglio conosciuto), buprenorfina, LAAM.
In alcuni paesi gli eroinomani che non vogliono curarsi in altro modo ricevono eroina dallo stato: questa procedura non elimina la malattia, bensì la mantiene controllandone alcuni aspetti (quello criminale per esempio).
La terapia con metadone (e gli altri farmaci) si basa su una differenza fondamentale tra i farmaci e la sostanza d’abuso: il farmaco arriva al cervello “lentamente” e non produce un effetto piacevole simile a quello delle sostanze d’abuso, cosicché non induce tossicodipendenza. Essere dipendenti da metadone significa semplicemente, quindi, che per evitare di ricadere nella tossicodipendenza da eroina si assume metadone come terapia, e perché la terapia dia garanzie stabili è necessario assumerla per lunghi periodi e ad una certa dose.
OPPIACEI – “Oppio buono contro oppio cattivo”
Il 28 Novembre 1988 l’allora sindaco di New York Mario Cuomo stilava un documento ufficiale per risconoscere “sul campo” la validità di un metodo scientifico per la cura della dipendenza da narcotici, al suo secondo decennio di applicazione su larga scala negli Stati Uniti. In una grande metropoli la tossicodipendenza può esprimersi in tutto il suo potenziale di danno sociale, per la estrema densità di popolazione, per l’estrema visibilità dei fenomeni sociali, e per la voracità con cui la criminalità organizzata tende a infiltrarvisi. Inoltre, l’allora emergente problema AIDS rendeva ancor più urgente intervenire sul fenomeno. I programmi metadonici sembravano riuscire a risollevare le sorti di una battaglia che migliaia di poliziotti non riuscivano a vincere, e che l’infettivologia non aveva armi per combattere. Dieci anni dopo, 1999, l’allora sindaco Giuliani dichiarò pubblicamente di aver cambiato il proprio programma elettorale. Dopo un consulto con gli esperti di tossicodipendenza dalla sua città, aveva ritirato la proposta di chiudere i programmi metadonici, ed aveva anzi promessi di potenziarli. Dati alla mano, smantellare lo strumento con cui il danno sociale da droga era stato arginato non sarebbe stato un buon affare elettorale.
La messa a punto di una cura per il morfinismo/eroinismo non ha seguito vie particolari. La sperimentazione riguardò una sottocategoria che non aveva “niente da perdere”, i tossicomani abitualmente dediti al crimine che entravano e uscivano dagli istituti di pena, problematici sia in carcere che all’esterno. La garanzia che il programma sperimentale avrebbe dovuto dimostrare era innanzitutto il contenimento del potenziale criminale di questi soggetti, che non era arginabile con le misure deterrenti e punitive abituali, ma, trattandosi di malattia, lo sarebbe stato a mezzo di una terapia efficace.
Ciò avvenne: rispettivamente nel 1968 e nel 1969 il gruppo di Vincent Dole pubblicava due lavori intitolati “Trattamento riuscito per 750 tossicomani criminali”, e “Trattamento metadonico in un gruppo per tossicomani criminali non selezionati”. Si dimostrava quindi che esisteva un metodo efficace per rendere inoffensivi socialmente gli eroinomani. Questo approccio, a prima vista, potrebbe sembrare simile a quello recentemente proposto e studiato di distribuzione controllata e legalizzata di eroina.
A prima vista, perché le ipotesi di lavoro di Dole, e anche le caratteristiche dello strumento, il metadone, erano radicalmente diversi. Distribuire eroina “gratis” ad un eroinomane significa certamente eliminare la criminalità legata alla spinta ad approvvigionarsi di soldi, ma non elimina il fatto che l’eroinomane è socialmente disadattato, improduttivo, e soprattutto infelice. Si dimentica spesso, infatti, che al di là della pericolosità sociale, un eroinomane è innanzitutto “rotto” nel suo rapporto con il piacere e l’equilibrio individuale. Gli eroinomani che troverebbero soddisfacente l’eroina “di stato” sarebbero solo una piccola parte. Del resto i programmi sperimentali avviati in alcuni paesi in questo senso riguardano proprio i cosiddetti eroinomani “duri” che non accettano né richiedono altro tipo di intervento: per loro il massimo risultato ottenibile, almeno inizialmente, è la neutralizzazione della pericolosità sociale. Negli stessi paesi in cui si ricorre all’eroina “controllata” per questo “zoccolo duro”, sono però disponibili i veri programmi terapeutici per tutti gli altri, i più. Con l’eroina “gratis” non si può curare l’eroinismo, e sarebbe paradossale visto che proprio l’eroina ha indotto la malattia nel cervello di chi l’ha usata.
All’inizio in diversi pensarono di distogliere i morfinomani usando altre sostanze: furono provate l’eroina e la cocaina, che in effetti sottraevano la persona al legame con la morfina per irretirlo in un legame ancor più forte con se stesse. Passare dal morfinismo all’eroinismo o al cocainismo significava passare “dalla padella alla brace”. Nella sua ipotesi di lavoro, Dole tenne conto di questi fallimenti e scelse uno strumento diverso. Il metadone non si diffondeva rapidamente nell’organismo, e vi restava a lungo. Trattando le persone eroinomani con dosi gradualmente crescenti di metadone si poteva ottenere una condizione in cui l’eroina assunta non produceva più alcun effetto, perché “schermata” dal metadone già posato sugli stessi “interruttori” nel cervello (“narcotic blockade”). Per dosi abbastanza alte, non esisteva più dose di eroina equivalente. Quindi, la persona trattata non poteva semplicemente smettere il farmaco per riprendere la droga, perché non sarebbe stato coperto, ed era così costretto a proseguire la cura per un certo periodo. D’altro canto, la dose poteva essere aumentata senza effetti narcotici, perché l’organismo si assuefaceva al metadone così come all’eroina e alla morfina. L’ipotesi fu confermata. Ma le scoperte andarono oltre gli intenti. Alcuni eroinomani assumono dosi limitate di metadone, potrebbero usare anche eroina ma non lo fanno. Inoltre, alcuni eroinomani assumono metadone e smettono di usare eroina, senza sperimentare l’impossibilità di “farsi” sul metadone. Inoltre, quando gli effetti dell’eroina già non sono più ottenibili, ma la persona continua ad assumerla, aumentando la dose del farmaco si fa cessare del tutto l’uso di eroina. Questo indica che il farmaco estingue il desiderio per l’eroina in maniera proporzionale alla dose assunta, e che in alcuni casi basta questo a spiegare il perché si smette di “farsi”.
Oppiaceo quindi vuol dire tutto o niente. Alcuni danno tossicomania, altri no. Alcuni possono essere utilizzati per curare, altri fanno ammalare.
Usare un farmaco oppiaceo per curare una tossicomania da un altro oppiaceo non significa quindi “sostituire”, “surrogare”, “rimpiazzare” una sostanza con un’altra. Significa invece usare una sostanza per correggere i comportamenti indotti dall’altra, sostituire sì, ma non il farmaco, bensì i suoi effetti sul comportamento della persona. Si potrebbe dire “oppio buono” e “oppio cattivo”.
Non sarebbe il primo caso in cui sostanze simili hanno un impatto diverso e magari opposto sulla salute.
Che cosa rende una sostanza oppiacea “maligna” al di là del piacere che può derivare dall’assumerla e dagli effetti che può avere ? In molti resterebbero delusi, ma sembra che l’unica differenza sia in come la sostanza si muove nel corpo: le sostanze che arrivano rapide nel cervello vi lasciano un’impronta, nel senso che il cervello risponde elaborando un programma per “ritrovarle” in seguito. Le sostanze che arrivano lente si fanno scordare, o comunque non inducono la voglia di farsi ritrovare. In questo l’eroina è peggio della morfina, mentre il metadone è innocuo. Ma basterebbe costruire una “nuova morfina” che si muove “lenta”, che si avrebbe una molecola probabilmente innocua. E basterebbe prendere una sostanza terapeutica e modificarla per renderla “rapida” e la si renderebbe pericolosa. La buprenorfina, una sostanza curativa usata per l’eroinismo, è terapeutica se assunta in compresse per bocca, ma può anche essere “sbriciolata” e sciolta ottenendo delle piccole dosi che, iniettate, producono un effetto simile a quello dell’eroina. A seconda della modalità di somministrazione, quindi, si rivela la faccia “buona” o quella “cattiva” di uno stesso farmaco. Ultimamente, per impedire l’uso non terapeutico di questo farmaco è uscito un preparato dalla composizione tale per cui l’effetto terapeutico è uguale, ma l’effetto “da iniezione” è neutralizzato automaticamente.
Attualmente sono in corso studi sulla morfina “a lento rilascio” come terapia dell’eroinismo, che niente hanno a che vedere con la morfina “di stato”. Di fatto la ricerca della “morfina buona” chiude il cerchio e non è che la prosecuzione della ricerca su un concetto già consolidato con il metadone, e più recentemente con la buprenorfina.
Molti anni fa, quando nel nostro paese droga significava dramma e spesso morte, Dole pubblicava un lavoro dal titolo “Mantenimento con metadone per 25000 eroinomani”. Dopo qualche anno dalle prime sperimentazioni gli autori parlavano già di “Riabilitazione degli eroinomani bloccando con il metadone gli effetti dell’eroina”. Se si pensa all’incertezza e all’indefinizione di un percorso di cura per i tossicodipendenti che ancora oggi esiste nel nostro territorio, è desolante constatare che una cura era già disponibile prima che da noi scoppiasse l’epidemia (alla fine degli anni sessanta), e che di riabilitazione possibile si parlava già allora. Desolante anche per un’altra ragione: se oggi da noi si parla di riabilitazione lo si fa spesso ignorando la tecnica della cura, sperando in un miracolo di volontà o di impegno che sono paradossali rispetto alla natura della malattia. Chi ignora la medicina delle dipendenze e le basi scientifiche della riabilitazione non può che giungere ad una conclusione, che una riabilitazione “non è possibile” e che una cura efficace è un miracolo. Sarebbe invece una crescita se la società diffondesse al suo interno i concetti scientifici di terapia e di riabilitazione, secondo i quali una cura efficace si può “fare apposta” e la riabilitazione, durante la cura, è più che possibile.
Il mio professore di fisiologia disse, nella lezione introduttiva, che per comprendere il come delle malattie avremmo dovuto porre domande alla natura malata, e la natura malata ci avrebbe dato le sue risposte. Un dialogo scientifico per meglio capire i meccanismi biologici, che vale anche quando si interviene per curare. La tossicodipendenza è stata “interrogata” a lungo, e finora ci ha dato una sola risposta: tende a perdurare o a ripetersi nel tempo, e la ricaduta non è un nuovo episodio, ma un ritorno, nel senso che non si riparte da zero. In medicina si usa il termine “malattia cronica”, e con questa dizione la tossicodipendenza è stata ufficialmente inquadrata dall’OMS. In molte malattie comuni la medicina può fornire strumenti per tener sotto controllo i sintomi e i meccanismi con cui le malattie producono le loro conseguenze, ma non eliminare l’alterazione di fondo. Talora l’alterazione si esaurisce da sé, e allora della terapia non c’è più bisogno dopo un po’. Spesso la terapia è cronica per adattarsi alla cronicità della malattia. E’ curioso notare come nel diabete, nell’ipertensione, nelle malattie cardiache, nelle epatiti, accanto a ricerche e tentativi tesi alla “risoluzione” definitiva delle basi della malattia (per esempio l’eradicazione di un virus) vi sia una ragionevole accettazione di una cronicità delle terapie. La terapia è un legame, una dipendenza, vissuta positivamente come uno strumento disponibile per poter vivere liberi dalle menomazioni o dalle conseguenze di una malattia, o magari solo per ritardarle o attenuarle. Nelle malattie psichiatriche, inclusa la tossicodipendenza, sembra esservi invece un’isteria di guarigione. L’atteggiamento imperante è quello di considerare negativamente le terapie croniche, anche se perfettamente efficaci, come se fossero un modo per dimenticare che la guarigione è probabile e a portata di mano, se soltanto la si vuole intensamente. In questo atteggiamento paradossale i risultati delle terapie non sono valutati per ciò che valgono, per la soddisfazione e la salute che producono in chi è curato, ma per l’idea di guarigione che offrono. Si dimentica che lo spazio lasciato libero dalle terapie croniche e dalla protezione che offrono contro una malattia cronica, è rapidamente riconquistato dalle malattie stesse, con il loro potenziale di morte, degenerazione e menomazione. Ad esempio, diverse persone sono convinte o indotte ad abbandonare terapie croniche efficaci dietro a questa illusione di guarigione, come se la cura e la guarigione passassero per due strade diverse, e come se anzi non fosse cura ciò che non porta con certezza alla guarigione.
L’isteria della guarigione è come un vigile “folle” che dirotta il traffico dei malati verso strade senza uscita, o li costringe a imboccare strade in senso contrario solo perché l’asfalto è meglio tenuto. I malati tossicodipendenti, come individui e come membri della società, possono essere allontanati dalle attività criminali, da ambienti violenti e traumatizzanti, dal rischio di contrarre infezioni, di riportare danni fisici di vario tipo. E’ per loro possibile recuperare terreno economicamente, sul piano produttivo e professionale, sul piano delle relazioni affettive e sociali, sul piano della soddisfazione individuale e della libertà di autodeterminazione. Questi sono i risultati della cura, che ovviamente coincidono anche con l’allontanamento dalle sostanze d’abuso. Ma l’allontanamento dalle sostanze d’abuso non è la chiave della cura. La chiave della cura può essere un qualsiasi strumento che riduca la probabilità del “prossimo buco”, più che la distanza dall'”ultimo” buco. Spesso all’aumentare della distanza dall’ultimo buco cresce la soddisfazione degli altri e l’illusione di guarigione, ma cresce anche il rischio di ricaduta. Dategli il giusto tempo e la malattia si rivelerà: non è questione di malaugurio o di disfattismo, è la malattia che da sé porta male a chi l’ha sviluppata…I trattamenti di mantenimento con metadone o buprenorfina o naltrexone sono appunto gli strumenti che tengono bassa o nulla la probabilità di un “prossimo” buco.
A terapia sospesa i giochi sono di nuovo aperti…è possibile che la cura faccia anche guarire, ma non c’è modo di saperlo se non a posteriori. In un film di Massimo Troisi si dice che per sapere se un amore è vero, se è “per sempre” o se finirà si deve attendere la morte dei due che furono innamorati, e solo allora eventualmente può aver senso scrivere nell’epitaffio “questi due si sono amati”. Anche nelle cure di mantenimento, si può sempre provare vedere cosa succede, ma è appunto soltanto questo, una prova dagli esiti incerti, in cui nessun fattore conosciuto può influenzare l’esito, tranne la cronicità della malattia che tende a influenzarlo in senso negativo. Se due persone “stanno bene insieme” non ha molto senso chiedersi “quando vi lasciate ?”, oppure “dovreste provare a essere felici anche da soli”. Allo stesso modo quando un malato e una terapia insieme producono una vita felice e funzionale, non ha senso chiedersi con impazienza quando di preciso questa vita debba essere messa nuovamente a rischio. E anche se come sfida, e non come rischio si prende la cosa, si tratta di una sfida insensata, poiché la forza di volontà non è tra i fattori in gioco, poiché si è “ammalata” e gioca a favore della malattia: tantomeno è quindi qualcosa su cui far leva.
D’altra parte, argomentazioni del tipo “io conosco uno che ce l’ha fatta” identificano il successo con la guarigione e non con la cura, anzi, con la guarigione senza cura. Sarebbe come sostenere che se c’è stato un superstite ad un bombardamento, al prossimo bombardamento val la pena di non nascondersi nei rifugi antiaerei perché si può sopravvivere anche in superficie; oppure che non si può nascondersi a lungo e ad un certo punto si deve “ritornar su” anche se non è suonata la sirena di fine allarme.
La tossicodipendenza da eroina dovrebbe essere presentata come una malattia grave e curabile. A pensare che altre tossicodipendenze e altre malattie sono gravi e incurabili, si dovrebbe essere quantomeno soddisfatti di questo risultato parziale. Soddisfatti anche di avere come nazione un ruolo non secondario nel panorama scientifico che contribuisce a sostenere e perfezionare le tecniche di cura.
Un tossicodipendente curato magari non è guarito, ma sicuramente non lo è colui che muore di overdose ad un’anno dall’ultimo “buco”. Si può avere la stessa malattia da vivi e curati o da morti e guariti. Con le dovute eccezioni che non fanno la regola.
Verrebbe da dire che le terapie a lungo termine sono un fallimento, una rinuncia alla prospettiva di guarire, di uscirne, una soluzione che non fortifica perché lega comunque il benessere ad un farmaco. Il mantenimento è un approccio che è stato attaccato e criticato non tanto a livello di risultati, che sono scientificamente dimostrati da decenni di studi in proposito, ma a livello di principio: mantenere un tossicodipendente in terapia sarebbe come “gettare la spugna” rispetto invece ad un intervento che lo porti a dare un taglio netto al passato per costruirsi un futuro senza droghe e senza farmaci. Questa visione ha un difetto, che è un “peccato originale”: non tiene conto della malattia, ma pensa al malato, e ne sogna il destino possibile, come se fosse “altro” rispetto alla malattia, come se il malato potesse scrollarsi di dosso la malattia che è “su di lui”, ma non “parte di lui”. Ben diversa è la realtà della tossicomania, in cui ad ammalarsi è una parte di cervello che a cose normali serve per poter scegliere i propri scopi, e che in un certo senso finisce parassitata da sé stessa per effetto delle sostanze, cosicché la tossicodipendenza è uno scacco matto della volontà e del piacere. Essere condannati a volere ciò che si deplora, cercare il piacere in ciò che ci distrugge la felicità.
Certo, la persona che si ammala prima non era così, e la tossicodipendenza sembra una deviazione crudele e assurda nel suo percorso di vita. E’ comprensibile che allora si presuma di poter cancellare quell’assurdità recuperando la persona di prima. Non esiste un’esorcismo per ricacciare il demone della dipendenza negli inferi. Il fatto è che per recuperare la persona e ricostruire la sua vita è necessaria una terapia. Il fatto è che una terapia rapida per prevenire a lungo termine la ricaduta non esisteE il fatto più importante è che le terapie esistenti hanno successo proprio nel senso di restituire alla persona la libertà di autodeterminazione, di ricostruire l’individuo. L’idea che un individuo di nuovo libero e di nuovo equilibrato non sia autentico perché la libertà deriva da una medicina, è sbagliata. Il malato che sceglie di curarsi e di legare il proprio destino di riabilitazione ad una cura è un individuo che esercita la propria libertà di scelta. In questo atto verso la cura sta il senso spirituale della cura, l’uscirne fuori (dalla malattia). Questo è esattamente l’opposto della falsa volontà della tossicodipendenza, il volere la droga che in realtà è una condanna a volerla. Uscirne senza legarsi ad una cura, ma curandosi con una supposta forza interiore è un’idea altissima, ma portatrice di illusione, di fallimenti e talvolta di morte. Tra l’utopia del guarire “come se non esistesse malattia” senza l’ausilio di cure, e la tragedia reale della malattia non curata esiste una terza via. La via scientifica, la via della cura possibile: controllare a lungo termine la ricaduta, mantenere il benessere mantenendo la cura e sostenere la risalita dell’individuo.
In Norvegia e in Svezia si usa da qualche tempo il termine “riabilitazione farmacologicamente assistita”. Non si tratta di aiutare chi non ce la fa da solo con il farmaco, ma di rendere possibile la riabilitazione assegnando ai programmi riabilitativi chi è in cura e non il contrario, come un tempo si faceva. Esiste da noi una contrapposizione che definirei “paradosso riabilitativo”: chi assume farmaci oppiacei non può procedere alla riabilitazione, chi ha smesso di prenderli sì. La ricerca scientifica indica che è sensato il contrario: si attendono risultati molto migliori per la riabilitazione se prima, durante e dopo vi è una terapia oppiacea efficace. Sembra un flashback, perché gli stessi autori citati all’inizio (Dole e suoi collaboratori), dopo aver dimostrato l’efficacia della terapia metadonica sull’uso di eroina si erano dedicati a studiare il “dopo”, ovvero riabilitare coloro che non delinquevano più e non si bucavano più. Da una timida idea iniziale di proporre il farmaco come “ingrediente aggiunto” delle terapie riabilitative, si arrivò a concludere che il farmaco era elemento permissivo, catalizzante, e non solo migliorativo. Alla fine era quindi la terapia riabilitativa un “ingrediente aggiunto” della terapia farmacologica, perché la terapia metadonica risultava essere la base del processo riabilitativo. Nella nostra stessa legislazione, le terapie di mantenimento sono ammesse in questa chiave, ovvero se lo scopo fondamentale è riabilitativo. Sembra una scoperta dell’acqua calda, sia per chi questa idea la aveva maturata sul campo come scienziato, sia nella storia della legislazione. Nella Conferenza di Ginevra sull’oppio (1924), la regolamentazione dell’uso medico di oppiacei prevede che l’uso sia consentito se “mentre il paziente è capace di condurre una vita discretamente normale e produttiva prendendo una certa dose di sostanza –non progressiva, di solito bassa- non è più in grado di mantenere tale condizione quando la somministrazione sia interrotta”.
Robert Newman così sintetizzo l’organizzazione dei servizi per i tossicodipendenti: “gli faremo un’offerta che non potranno rifiutare”…Nel curare una persona tossicodipendente c’è una regola fondamentale da seguire, per non sbagliare mira, che consiste nel non lasciare che sia il malato a decidere la sua terapia. Per sua natura, il tossicodipendente esprime correttamente il proprio disagio, e può darsi che quando la sofferenza è intensa abbia una consapevolezza parziale della propria condizione come malattia, ma questa consapevolezza è estremamente fluttuante. Appena non c’è più rischio di vita, o di problemi insormontabili, il comportamento malato riprende il sopravvento e si trascina dietro il ragionamento. Un giorno si chiede aiuto, il giorno dopo si rifiuta l’aiuto perché “va meglio”. Il problema così chiaramente illustrato al momento del bisogno non c’è più, anzi non c’è mai stato…In genere i medici e gli operatori del settore servono al tossicodipendente per risolvere situazioni contingenti, ma non vi è nessun progetto di cura. Con il tempo, il tossicodipendente impara a passare attraverso tutti i cancelli e i percorsi sanitari o riabilitativi dicendo agli altri ciò che vogliono sentirsi dire, fingendo di intraprendere ciò che gli si richiede, per poi reincanalarsi, più o meno consapevolmente, nel meccanismo della tossicomania. I servizi finiscono per funzionare come un autolavaggio, in cui la persona passa, si dà una ripulita e gli altri si illudono che il loro intervento immunizzi la persona contro le ricadute, cosa che non accade. In questo c’è qualcosa di tragico: il destino di una persona la cui malattia impedisce e ostacola la capacità di avere una parte attiva nella cura.
Anche il diabetico può scegliere di non prendere le medicine prescritte, ma è una sua scelta. Il tossicomane invece non può scegliere di occuparsi d’altro che della sostanza, e tutto ciò che in qualche modo interferisce con l’apparente libertà di questo rapporto vizioso è evitato o rifuggito, terapie comprese. La probabilità che un malato abbandoni il programma di cura è massima all’inizio (ovvero il giorno dopo non si presenta all’appuntamento) e quando la dose di metadone è tale da bloccare gli effetti dell’eroina, e ancora non abbastanza alta da bloccare la smania di farsela. In questo periodo “finestra” il desiderio senza la possibilità di consumare il piacere rende la terapia quanto di più indesiderabile esista. La maggioranza dei tossicomani in trattamento metadonico sono appunto in queste condizioni, e infatti entrano e escono dai programmi, oppure abbassano e rialzano la dose senza mai realmente smettere di essere legati alla sostanza. Allora facciamo loro un’offerta che non possono rifiutare: la cura probabilmente funzionerà, ma non se la decidi tu, quindi per farla devi farla secondo i parametri giusti”. Tenendo fermo questo punto, i malati usciranno dall’ambulatorio scontenti, ma avranno un chiaro messaggio sul fatto che la terapia è “altro” rispetto all’autogestione delle sostanze, o ad un generico aiuto ad alzarsi da terra per continuare sulla stessa strada. La difficoltà sta nel fatto che il cervello, accecato dalla smania per la sostanza, non riesce nemmeno a concepire un futuro senza sostanza e allo stesso tempo accettabile, per cui l’unica speranza diviene riuscire a gestirla spremendo tutte le risorse disponibili e vivendo in bilico. Quando un tossicomane trascorre un periodo in cura, e la cura procede per il meglio, ad un certo punto in genere “capisce” cosa può succedere nel suo cervello grazie alla cura. Non si tratta di capire a livello razionale, cosa che magari è in grado di fare da subito, ma a livello progettuale: cioè capisce che è possibile progettare una vita quotidiana senza la tossicodipendenza, ed è una sorpresa, a volte un sollievo e a volte una sensazione di smarrimento. Quando il tossicomane chiede di essere curato, chiede il benessere, ma tende ad accettarlo nel solo modo che la malattia gli lascia concepire, ovvero senza condizioni e immediato: chi offre le cure deve basarsi sulla richiesta delle cure stesse senza piegarle alle richieste della malattia, ma adattandole invece ai parametri della cura. Il medico deve comportarsi un po’ come un istruttore farebbe con un apprendista dotato ma impaziente: accettare di istruirlo ma mantenere sempre le redini dell’apprendimento, e mai far sì che il tecnico dell’apprendimento diventi l’apprendista. Una volta si presentò un tossicomane che chiedeva una cura dopo anni di danni e sofferenze, ma pretendeva di indicare lui la via, o per lo meno di negoziare il tipo di metodo da impiegare, ritenendo giusto che almeno alcune delle sue richieste fossero accettate, e ponendosi nel ruolo di chi dice “se volete curarmi accettate le mie condizioni”. Questo trucco è la manipolazione che il tossicomane spesso fa al medico, ma che si ritorce poi contro di lui. Il messaggio da dare è invece “se il tuo scopo è curarti, e chiedi a me di occuparmene, queste sono le condizioni che devi preoccuparti di accettare”. Il malato deve essere in pratica sollecitato a negoziare con se stesso i propri scopi, sapendo che i presupposti di una cura efficace non possono essere toccati. Allora non è raro avere la sopresa dello stesso tossicomane che torna, ormai in cura “suo malgrado” e esprime a suo modo la sua stima al medico “!Sto bene e non ci penso più all’eroina. Che Lei sia maledetto ! Aveva ragione”.
Dipendente vuol dire una cosa ben precisa. Non vuol dire essere sotto l’effetto di una droga. Non vuol dire assumere droghe per abitudine. Non vuol dire nemmeno essere assuefatto ad una droga, cosicché se non la si prende si va in astinenza. Tutto questo da solo non fa la tossicodipendenza. E anche la parola dipendente e dipendenza rendono male il concetto. Ad esempio in inglese i termini sono distinti: dependance e addiction, cioè “avere necessità di qualcosa” e “essere dediti a”. La tossicodipendenza non riguarda il fatto di provar gusto con una sostanza, né il destinare le proprie risorse prevalentemente al consumare una sostanza. Si tratta di stabilire se l’investimento in quella sostanza va al di là delle intenzioni di chi lo ha fatto e lo rinnova di giorno in giorno. Cercare il piacere è umano, e anche cercarne di sempre maggiori lo è, anche se non è così per tutti i caratteri. Investire le proprie risorse in un piacere è umano, anche se il piacere può essere una sostanza per alcuni e un progetto, un ideale, per altri. L’investimento può cominciare ad un certo punto a non essere più remunerativo: non si guadagna più, oppure si guadagna da una parte ma le spese sono tali da spostare il bilancio “in perdita”. Di solito in questo caso l’investimento è revocato, o magari ridimensionato, o magari dirottato su altri oggetti. Al tossicodipendente accade invece una strana cosa, che lui per primo non aveva previsto, almeno non aveva previsto che succedesse a lui, anche se ad altri era successo. Nonostante la sostanza gli piaccia di meno, la vuole sempre di più. Nonostante si stia rovinando la vita per garantirsi la sostanza, pensa a come fare per continuare ad averla, anziché smettere e riparare i danni. Da utilizzatore si gestisce la sostanza, che questo sia culturalmente condiviso o meno. Da tossicomani non ci si riesce. Possono esistere consumatori ricchi e poveri, ma esistono solo tossicomani che si impoveriscono.
E’ come se il cervello viaggiasse su due binari: uno del ragionamento normale, e uno del ragionamento che va dietro ad appetito incontrollabile. Due binari paralleli che non si incontrano, cosicché il ragionamento normale rimane impotente rispetto al ragionamento “parassita”. Una mano allontana la sostanza, e l’altra si sporge per afferrarla, scansando tutto il resto. Il problema è che la mano impazzita è più forte e più svelta, perché corrisponde ad una struttura biologicamente più forte e più svelto, l’istinto. Per questo il tossicodipendenza è ambivalente: chiede aiuto e poi pensa subito a come avere la dose successiva. Si lamenta della propria condizione ma come prima cosa chiede soldi o aiuto per procurarsi la droga. Sa di distruggersi e non ne avrebbe alcuna intenzione ma è condannato a volere questo destino assurdo mossa dopo mossa.
Scacco matto al piacere e scacco matto alla libertà di scelta. Questo è la tossicodipendenza o tossicomania. Un catenaccio su un sistema cerebrale preposto a usare l’istinto per raggiungere il piacere e i nostri scopi, che alla fine è costretto a funzionare in un solo modo e verso un solo oggetto. L’ironia è che la sostanza che ha costruito nel tempo il catenaccio può anche andar via dal cervello, ma il catenaccio rimane, e non ha una serratura. Un modo per dire che la malattia è cronica, persistente. Ma l’ironia vuole anche che esista una cura con la quale non si apre il lucchetto ma si trasforma in gomma il ferro del catenaccio, permettendo così al cervello di respirare e funzionare. La contro-ironia dell’oppio “buono” che ripara i danni dell’oppio “cattivo”…
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