Le tecniche comportamentali che si sono dimostrate efficaci fanno riferimento per lo più al modello dell’esposizione con Prevenzione della risposta (EPR): si produce una situazione o reale o immaginata corrispondente a quella che produce ansia o disagio, e poi si impedisce o si ritarda l’esecuzione del rituale. Questo può essere inteso in due modi, cioè eterodiretto (alla persona è materialmente impedito di attuare il rituale, o si creano le condizioni per cui non possa farlo almeno nell’immediato), oppure autodiretto, ovvero si tenta di sviluppare comportamenti che hanno come effetto quello di ritardare o distrarre o trattenere la persona dalla compulsione.
La tipica strutturazione di questa terapia è una prima fase “intensiva” e una fase successiva di richiami o consolidamento, con prove progressive in ambienti della vita reale. Lo scopo è che la persona non abbia le compulsioni nel suo ambiente naturale.
Non si dispone di grandi campioni studiati, ma è comunque è stato possibile stabilire che i risultati sono consistenti e stabili nel tempo. I dati vanno riferiti però ai pazienti che completano il periodo di trattamento, che sono circa 1 su 2; e a pazienti che hanno spontaneamente contattato uno psicoterapeuta sapendo più o meno in cosa può consistere il trattamento.
Poiché i pazienti depressi ad esempio non tendono a cercare un coinvolgimento, tanto meno attivo, in un trattamento, per questi si è suggerito il pretrattamento con farmaci antidepressivi: questo tuttavia potrebbe alterare il dato, poiché l’antidepressivo può di per sé essere anche antiossessivo, e quindi, oltre che predisporre alla terapia comportamentale, anche migliorare da solo il disturbo in partenza e durante lo svolgimento della psicoterapia, indipendentemente dall’efficacia di quest’ultima.
Il migliore ma non unico candidato alla terapia comportamentale è quindi il paziente con umore non depresso, con rituali agìti sui quali sia possibile intervenire tramite un blocco facilmente misurabile e controllabile, con un unico o pochi tipi di ossessione/compulsione.
Il fatto che una serie di persone richieda una terapia comportamentale, ma poi si dimostri oppositivo o poco interessato a proseguirla, può dipendere da vari fattori. Uno può essere una gravità alternante, per cui l’urgenza rientra e con essa l’idea di dover curare il disturbo. Un altro può essere la scarsa motivazione individuale, o le aspettative errate rispetto all’andamento della cura, cioè il fatto che consista in una partecipazione attiva e non in una serie di colloqui conoscitivi. Inoltre, i pazienti con maggiore spirito critico, spesso più colti o intelligenti, rischiano di aderire male e poco a tecniche che percepiscono come troppo semplici e poco interessanti sul piano intellettuale.
L’abitudine graduale all’ossessione (mitridatismo) è sovrapponibile alla EPR, con la variante che in questo caso più che prevenire la risposta si evita di assecondare rituali, in maniera che l’interazione con il terapeuta o i familiari che non assecondano le ossessioni comporti un aumento iniziale della tensione ossessiva per poi produrre un rilascio stabile e relativamente duraturo. Questo meccanismo è quello che spontaneamente molte ossessioni occasionali fanno, ovvero essere spente poiché non trovano soluzione, mentre invece il fatto di trovare un rituale è un meccanismo di mantenimento e allargamento dell’ossessione, che non raggiunge mai massima intensità ma proprio per questo non è mai respinta dal cervello
Altra tecnica è quella di istruire ad un comportamento rituale che si interpone a quello normale, o vi si aggiunge, in maniera da saturare il meccanismo compulsivo, e ridurre la spinta del cervello verso le compulsioni.
Il disturbo ossessivo “resistente” migliora con l’aggiunta di terapia comportamentale, non in maniera decisiva (30%) ma stabile a medio termine (1 anno e mezzo), considerando comunque tutti i tipi di ossessioni e compulsioni, e tutti i tipi di trattamenti effettuati senza risposta.
La teoria cognitiva vede nella convinzione sull’utilità e sulla sensatezza delle ossessioni la base per la loro cronicizzazione. Tuttavia va detto che un soggetto in preda alle compulsioni tende a sviluppare un’aderenza alle ossessioni nell’ottica di una migliore attuazione dei rituali, come se cioè stesse facendo una cosa utile e sensata. La convinzione sull’utilità spesso è il primo bastione che cade nel trattamento del DOC, con il paziente che inizia a lamentarsi in maniera scocciata delle proprie ossessioni e compulsioni. E’ come se quindi l’aspetto cognitivo fosse una complicazione del DOC più che un aspetto di origine e mantenimento.
Le convinzioni erronee sulle ossessioni possono quindi essere un fattore che ostacola la consapevolezza di malattia, e quindi le modalità con cui dall’idea di avere un problema si passa all’idea che il problema derivi dalle ossessioni.
L’informazione sul DOC può essere essa stessa un modo per orientare il paziente verso specifiche tecniche, o per alternare discussioni teoriche a momenti pratici “spiegati” alla luce delle discussioni fatte nelle sedute precedenti. Questa tecnica, la “psicoeducazione” si applica sia al disturbo ancora non curato, sia alla cura in corso, che al post-cura, in cui la persona, che sta bene può vedere con occhio distaccato le dinamiche delle sue ossessioni e fissare alcuni concetti senza la resistenza istintiva che dimostra il paziente ossessivo ancora in preda al meccanismo del rituale e della rassicurazione. La psicoeducazione è soprattutto proponibile in quei casi in cui le ossessioni riguardano non singoli gesti o azioni, ma pensieri su temi di per sé sussistenti, come le malattie, la gelosia, i rapporti con gli altri, le proprie capacità mentali.
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