Scegliere il trattamento per una dipendenza
Cosa bisogna sapere e chiedere
In cinque punti
Lo scopo finale del trattamento di una (tossico)dipendenza è riportare l’individuo alla libertà di scelta sul proprio comportamento, situazione da cui consegue automaticamente il distacco dalla sostanza che ha determinato il problema, mentre il trattamento è in corso.
Questo effetto si sviluppa con gradualità (mesi), non sempre e non necessariamente dopo aver iniziato con un’interruzione dell’uso abituale della sostanza.
I trattamenti per la dipendenza richiedono da parte di chi si cura soltanto la volontà di curarsi, la motivazione a curarsi, l’accettazione del ruolo di paziente (cioè seguire le indicazioni del medico e verificare con lui i risultati). I trattamenti per la dipendenza non richiedono l’autocontrollo, che sarebbe un’assurdità, né la moderazione, per la stessa ragione, né il raggiungimento iniziale di una sospensione dell’uso (anche se la maggior parte dei tossicodipendenti riescono a disintossicarsi, questo non è richiesto “tecnicamente” dalla maggior parte dei trattamenti e non condiziona i risultati finali).
I fattori che influenzano l’esito di un buon trattamento sono, in ordine di importanza e di logica:
– la gravità della malattia (in riferimento ai suoi sintomi cardine) all’epoca in cui inizia la cura
– la specificità del trattamento (cioè i dati scientifici a favore di un suo effetto su quella dipendenza)
– la disponibilità di servizi collaterali per i problemi annessi e connessi (come quelli infettivi, legali etc)
– la qualità del rapporto personale tra il medico che cura il caso e il paziente, nei loro rispettivi ruoli
Il primo di questi fattori presuppone che la diagnosi sia stata fatta, e che sia stata fatta tra tre possibilità: uso controllato (non patologico, ma pur sempre tossico a seconda della quantità); uso non controllato durante l’episodio ma con possibilità di controllo delle ricadute, a partire dall’astinenza (cosiddetto abuso); dipendenza (o addiction), che prevede l’incapacità di controllare la ripetizione dell’uso e il suo andamento, sia in acuto che nel tempo, sia a partire da un uso abituale, sia a partire da una condizione di non-uso stabile e prolungato.
Fatta la diagnosi, le cose da sapere o da chiedere sono sostanzialmente queste:
1 – Quali sono i trattamenti scientificamente validi e quali risultati danno ?
I trattamenti esistenti che possono dirsi “terapie” sono disponibili per varie dipendenze. Non sempre, anche se autorizzati, hanno efficacia sulla maggioranza dei pazienti o in tutte le fasi. D’altra parte, alcuni trattamenti scientificamente già proponibili sulla base dei dati della ricerca, e basati su farmaci già in commercio, non sono invece registrati ufficialmente. La “bontà” del trattamento non dipende né dall’intenzione di chi lo gestisce, né da quanto uno “ci crede”, né dal fatto che è “innovativo”, né dal fatto che sia basato su una cultura “contraria alla droga”, né dal fatto che la persona si trovi a proprio agio nell’ambiente in cui questo si svolge.
Un trattamento è giudicato efficace quando funziona in persone che non si controllano, non sperano di poter cambiare in meglio, non partono “bene” in termini di situazione personale e sociale, e sono mentalmente alterate e deviate per l’effetto della dipendenza, soprattutto nel poter capire in partenza l’importanza della cura e per vivere come possibili i risultati.
Come far sì che il paziente si curi è una questione non sempre facile, perché non si può prevedere che collabori in maniera diretta e costante all’inizio, anche se chiede con assoluta sincerità di essere curato per poterne “uscire”. In ogni caso è inutile chiedere come punto di partenza al paziente quello che la cura deve ottenere come suo risultato. Sarebbe come chiedere a un paziente con la polmonite di riprendere a respirare bene prima di iniziare l’antibiotico.
Nell’ordine il trattamento produce: prima una riduzione del consumo di sostanze e una riduzione dei rischi associati, poi una tendenza all’estinzione e una normalizzazione delle condizioni mentali della persona, infine una ripresa delle capacità sociali e produttive.
2 – Il programma terapeutico, oltre allo strumento di fondo, cosa prevede come elementi che facilitano la riuscita e in che senso devono essere intesi ?
Gli interventi collaterali, come ad esempio la possibilità di usufruire di servizi legali, sociali e medici mentre si imposta un trattamento per le dipendenze può migliorare l’adesione al trattamento medico per la dipendenza, creare una motivazione forte, o anche costituire un “ricatto” (nel caso ad esempio delle misure alternative al carcere). In ogni caso, tutto ciò che lega o induce il paziente al trattamento migliora la probabilità che il trattamento sia applicato in modi e tempi tali da funzionare al meglio.
Viceversa, tutti gli interventi con gli stessi attori (medici, assistenti sociali, autorità, genitori, amici, compagni) che non incoraggino il paziente verso la cura, ma lo spronino o lo ammoniscano a “cambiare vita” o a tenersi lontano dalle sostanze, o lo ammaestrino circa i vantaggi di una vita senza droga, o ancora gli diano fiducia e la responsabilità, non hanno a che vedere con le dinamiche della dipendenza e non influiscono sulla ricaduta. Benché l’ambiente favorevole in generale favorisca alcuni tipi d’intervento (come la disintossicazione), questo non incide sul nucleo della malattia, e spesso costituisce semplicemente un modo in cui le risorse (economiche, umane, sociali) sono ciclicamente investite e bruciate tra aspettative deluse e promesse non mantenibili.
3 – Il trattamento è deciso dall’inizio o deve cambiare nel tempo ?
Il programma terapeutico prevede, soprattutto nei primi mesi, verifiche periodiche e frequenti, che servono a decidere alcuni parametri essenziali per il funzionamento della terapia stessa, ad esempio il dosaggio di un farmaco. Tendenzialmente, nei primi mesi gli aggiustamenti di dosaggio di una medicina anti-tossicodipendenza saranno in aumento, alla ricerca del miglior equilibrio ottenibile. Se una dose è sufficiente fin da subito a ottenere ottimi risultati, questa non dovrà tendere alla riduzione, cosa che sarebbe assurda rispetto all’obiettivo fondamentale della riabilitazione e del controllo della ricaduta. Molto più spesso a partire da dosi inizialmente sufficienti si tenderà ad aumentarle in base alla ricomparsa di sintomi o al ripresentarsi, anche sporadico, dell’uso di sostanze. Gli esami tossicologici (di solito urine) servono ad avere un riscontro affidabile per prendere questa decisione, otre alla visita e al colloquio.
Gli interventi accessori (ad esempio progetti di lavoro, soluzioni abitative) a volte sono pensabili solo quando la tossicodipendenza è migliorata o sotto controllo, per cui possono essere iniziati anche in una seconda fase, in maniera da mettere in sequenza logica prima il controllo dei sintomi, poi iniziative che richiedono un comportamento controllato e libero da parte del paziente.
L’uso di sostanze durante il trattamento deve motivare un adeguamento del trattamento. La ricaduta o semplicemente l’uso con frequenza e intensità minore non è segno del fallimento del trattamento, almeno finché il trattamento non è provato per lungo tempo e alle dosi massime.
4 – Quanto deve durare un trattamento una volta che si è dimostrato efficace e la persona è riabilitata ?
Trattandosi di malattia che dura nel tempo e tende a riprodursi periodicamente, il trattamento è sostanzialmente preventivo, poiché ristabilisce un equilibrio e quindi come conseguenza ostacola le recidive, per lo stesso principio. La sospensione del trattamento è sempre una condizione a rischio di ricaduta maggiore rispetto alla prosecuzione del trattamento. La guarigione biologica della tossicodipendenza non è dimostrabile se non a posteriori, e non deve essere presunta sulla base delle condizioni mentali, funzionali e sull’atteggiamento del paziente. Il benessere è il risultato ottenuto per mezzo della cura, e non il presupposto per pensare di sospenderla. Il benessere è il risultato della cura che è stata seguita nel tempo precedente, e non di quella recente: la ricaduta sarà quindi il rischio e la conseguenza del non aver assunto per un periodo precedente la cura preventiva.
La ricaduta in una persona che non segue nessun trattamento non è una “novità” né il segno di un caso “recidivante”, è semplicemente espressione di quello che la malattia normalmente prevede se non è trattata, cioè la recidiva. La ricaduta in una persona che non segue un trattamento non è segno dell’inefficacia del trattamento passato, è invece motivo valido per riprenderlo il prima possibile.
Il paziente non dipende dal trattamento, tantomeno dal medicinale utilizzato, ciò da cui dipende è la malattia con la sua tendenza a ritornare a partire da un apparente benessere. Il paziente può contare sul trattamento, grazie al fatto che questo produce effetti che non decadono nel tempo, ma restano finché il trattamento prosegue.
5 – Quali sono gli errori più comuni nel trattamento ?
Gli errori più comuni sono l’uso di dosi non terapeutiche (basse) e la sospensione precoce (e rapida) del trattamento. Altro errore comune è l’uso di farmaci non specifici in sostituzione delle terapie specifiche, con l’idea di ridurre queste ultime e di utilizzare, sempre o al bisogno, farmaci indicati per altri disturbi (es. ansiolitici, antidepressivi). Un errore frequente è quello di far decidere al paziente la dose che gli sembra “giusta”, che lo “copre” bene: questo è un errore perché il paziente ragionerà in termini di sostanza con il farmaco, e non di medicinale, ne utilizzerà le proprietà a breve termine e giudicherà la correttezza delle variazioni di dose in base ai risultati immediati, con il risultato di rimanere a dosi basse, assumerle senza troppa regolarità, e sospendere la cura il prima possibile. Questi errori comportano tipicamente il fatto che la persona passa anni con l’idea fallimentare di sospendere le cure e “provarci” in base a una sua motivazione personale, o a situazioni esterne che considera favorevoli. Invece, ad ogni ciclo ricade nella sostanza e ritorna alla terapia (mal fatta), che finisce per “odiare” perché la vive soltanto nei momenti peggiori della malattia come segno del fallimento. L’errore più comune di ogni altro rimane il ritardo terapeutico, cioè evitare di curarsi finché si è molto gravi, e evitare tra i vari trattamenti quelli efficaci, per scegliere invece quelli sintomatici (disintossicazione) che non incidono sul nucleo della malattia.
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