Il disturbo da stress post-traumatico (DSPT) è un quadro che nel linguaggio comune spesso si indica approssimativamente con espressioni tipo “essere rimasti traumatizzati” o “non aver superato il trauma”. Queste espressioni, così come gli stessi concetti di trauma e di stress sono però utilizzati in maniera piuttosto vaga, e finiscono per significare poi genericamente una forma di disagio espresso mentalmente che è seguito a determinati eventi o situazioni spiacevoli.
Il DSPT si basa su un andamento caratteristico e fa riferimento allo stress “patologico”, cioè a quella forma di sollecitazione e attivazione dell’organismo e del cervello in risposta a eventi “pesanti” che impedisce di adattarsi, o semplicemente fa inceppare il meccanismo di adattamento, con il risultato di un trauma irrisolto e disturbante.
Innanzitutto si fa riferimento a eventi in cui la persona abbia subito una minaccia concreta della propria incolumità fisica e/o una segregazione (cattività), indipendentemente dalle attuali conseguenze o dai postumi corporei. Fanno parte quindi degli eventi “pesanti” catastrofi naturali, incidenti, aggressioni, vittimizzazioni con costrizioni, violenze fisiche o minacce. Sono possibili anche forme in cui l’atto violento è stato commesso ai danni di una terza persona molto vicina affettivamente con la persona che assisteva alla violenza.
Il disturbo non si sviluppa sempre subito, anche se vi è solitamente una fase immediata indicata come “stress acuto”. Questa poi può interrompersi con un apparente raffreddamento, magari anche eccessivo (uno stato di indifferenza e di anestesia emotiva, o di distacco paradossale). Segue la ripresa di una condizione di “stress” a evento finito, a distanza, definita appunto “stress post-traumatico”. In altre parole, la persona continua o riprende a vivere come se la situazione di rischio fosse sempre viva o come se si fosse appena conclusa. La persona è afflitta da ricordi, pensieri e flashback riguardanti il fatto, e vive appunto in una condizione di sovrapposizione cosciente di questi ricordi alla realtà, “come se” stesse ancora vivendo la situazione. Il fatto può diventare il tema unico o prevalente dei pensieri, dei discorsi e delle rappresentazioni (giochi, disegni, scritti). La persona può assumere atteggiamenti opposti, anche a periodi alterni, tra il terrore di entrare di nuovo in contatto con luoghi o dettagli che possono rievocare il fatto, oppure iniziare a rievocarlo appositamente come per trovare una soluzione, un senso, un “perché”. Nelle prime forme, “distoniche”, la persona descrive i pensieri come non desiderati e intrusivi, e assume un atteggiamento isolato e di difesa convinto che la soluzione migliore sia quella di “scomparire” dal mondo per non essere costretto a fare i conti con il mondo in cui si sono verificati i fatti, talvolta scegliendo di cambiare ambiente di vita. Nel secondo caso la persona è come assorbita dall’idea di dover andare fino in fondo, di dover vivere nella rievocazione rituale del fatto per trovare una via d’uscita o sprofondarvi completamente, senza riuscire a concepire una vera vita. In entrambi i casi la persona vive il fatto come uno spartiacque tra un prima e un dopo, per cui l’intera esperienza di vita ruota intorno al significato di quel fatto, che non doveva succedere ma che ormai è successo e non si può cambiare.
Questa “attualizzazione” e assolutizzazione sono proprio le caratteristiche che corrispondono alla sofferenza della persona. La memoria è eccessivamente viva, e quindi il meccanismo naturale di oblio, o di “messa in background” non riesce a innescarsi. ll cervello lavora come quando è in corso una guerra a cui non ci si può sottrarre, ma che si può solo gestire.
Naturalmente, nella maggioranza dei casi le persone riescono a superare i traumi vissuti. Se però questo percorso si interrompe e anzi si inverte, come nel DSPT, il trauma tende poi a rimanere irrisolto. Nel percorso traumatico normale si passa da una fase di reazione acuta, ad una di raffreddamento, in cui la persona può stupirsi della facilità con cui si è ripresa, e in un successivo adattamento con il recupero e la sistemazione dei ricordi e la costruzione di spiegazioni e di motivazioni per andare avanti. Nel trauma patologico invece le fasi sono più spiccate, sia la prima (stress acuto) che la seconda (raffreddamento) e sono seguite dallo stress post-traumatico, senza riuscire a passare alla fase di adattamento. L’adattamento non dipende tanto dal fatto che la persona si spieghi l’accaduto o lo giustifichi, ma dalla riuscita del meccanismo di oscuramento del fatto che è sistemato in maniera funzionale ma in posizione di sottofondo e non in primo piano.
Quel che sembra anomalo è la capacità di reagire in maniera efficace (cioè il meccanismo dello stress “positivo”), come quando non mettendo in funzione il muscolo giusto si impara a eseguire un movimento in una maniera sbagliata e che poi causerà problemi. Il perché di questa incapacità aumenta con l’aumentare del peso della violenza o dell’incidente subiti, ma esistono anche fattori di vulnerabilità biologica che variano a parità di tipo di evento traumatizzante.
I traumi più a rischio sono quelli da violenza personale (quindi per esempio da aggressione anziché da catastrofe), e i sintomi più a rischio, a parità di gravità complessiva, sono quelli dissociativi nella fase iniziale. Una fase spiccata di appiattimento emotivo dopo il trauma è una condizione a rischio per successivo disturbo da stress post-traumatico.
E’ difficile seguire in tempo reale la reazione ad un trauma per capire quali siano esattamente eventuali parametri corporei “spia” di una reazione che sta prendendo una piega patologica. Nel disturbo però si sa che la reazione agli stimoli che richiamano il trauma è esplosiva, di fuga o violenza ad esempio, mentre la reazione ai normali stimoli è attutita. Gli stimoli ansiogeni suscitano una reazione aspecifica, come se la risposta di difesa o di contrattacco fosse una modalità ormai standard di reazione anche a stimoli che niente hanno a che vedere con il trauma originario.
Le persone che hanno subito un trauma ma si sono ripresi possono però non resistere a traumi ripetuti. Questo accade perché, anche in persone psichicamente non sofferenti, il ripetersi dello stesso trauma (ad esempio stupro o rapina) può alla fine provocare il disturbo. Le persone che già hanno subito un trauma dello stesso tipo (stupro) sono infatti più a rischio di avere uno stress post-traumatico di quelle che subiscono la violenza per la prima volta.
Il DSPT è teoricamente prevenibile, anche se non è sempre facile intervenire sulla persona traumatizzata, e anche perché molti pensano che curare una persona che ha subito una violenza in qualche modo sia una “forzatura” che impedisce alla persona di cercare di non pensarci o di reagire con le sue forze. Questo atteggiamento è ingiustificato, ed è sempre bene verificare che non esista un rischio particolare di DSPT e che la reazione al trauma si stia svolgendo in maniera fisiologica.
Quando si diagnostica un DSPT è importante che siano evidenziati i sintomi tipici, poiché spesso sono evidenti alcuni sintomi depressivi e le anomalie comportamentali, mentre i pensieri e i ricordi sono raccontati malvolentieri dalle persone, o almeno non così facilmente specie se richiamano a violenze personali, sessuali e non, o a fatti di cui si è stati testimoni o partecipi. Non si rado si sviluppano DSPT in persone che hanno compiuto violenze a danni di altri in condizioni particolari, che poi sono vissute in una fase successiva con sentimenti di colpa, vergogna e con la sensazione di dover “scontare” quel che si è fatto con una condanna a ricordarlo per sempre. Il meccanismo dello stress post-traumatico può inserirsi in quadri psichiatrici di altro tipo come ad esempio il disturbo bipolare, diventando un fattore di rischio per condotte autolesive o abuso di alcol e sostanze.
Il disturbo è trattabile. Esistono medicinali e psicoterapie efficaci nel far maturare quel distacco dal ricordo che non è maturato in precedenza, e che quindi ridanno forza al naturale equilibrio tra memoria e oscuramento che permette di sistemare i ricordi evitando di rincorrere un perché inesistente e di vivere in funzione di un problema che altri (o il destino) hanno creato e che invece finisce per condizionare il senso della vita di chi ne è stato vittima. La cura è quindi una sorta di tutore che aiuta i circuiti della risposta al trauma a far funzionare i giusti meccanismi di elaborazione e ridimensionamento. Molte persone, ormai “attaccate” ossessivamente al trauma, non accettano subito di curarsi perché convinte di dover trovare la soluzione, felice o infelice che sia, da soli faccia a faccia con il loro trauma. E’ invece importante lasciare in sospeso questa visione per verificare quali vantaggi si possono avere da una cura.
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