Questi termini indicano un insieme di sintomi che si possono presentare sia in forma di episodi brevi e ricorrenti, sia in forma di fasi, cioè periodi prolungati, fino a forme di fondo, continue e di lunga durata. Quando i sintomi sono quelli prevalenti e costanti nella storia della persona si utilizza il termine di “disturbo da depersonalizzazione/derealizzazione”, mentre i sintomi sono presenti in una varietà di disturbi altrimenti definibili (panico, umore, psicosi). Questi sintomi si indicano anche come “sintomi dissociativi”, ma va precisato che questo termine (dissociativo, dissociazione) non ha a che vedere con il significato del termine in uso nella psichiatria di qualche decennio fa, che ancora è impiegato. La vecchia “crisi dissociativa” o “stato dissociativo” erano più o meno episodi psicotici, magari senza un delirio continuo o ben definito, ma sostanzialmente questo era il senso. I sintomi “dissociativi” a cui stiamo facendo riferimento in questo caso invece sono altra cosa, non richiamano quindi automaticamente alla psicosi.
Essere “derealizzato” significa sentirsi fuori dalla realtà, come su un piano diverso, di non-appartenenza di ciò che si fa, si dice. L’identità è come congelata, fissata in un punto che non coincide, non combacia con ciò che accade, che ricordiamo, che diciamo. Ci si sente come se ci si guardasse o sentisse da fuori, come se il mondo di fronte fosse una specie di maxischermo, o di illusione. Il senso comune e automatico delle parole, delle cose, del tempo si allenta, è come se il senso globale non ci fosse più. Per questo quando la persona parla e agisce in queste circostanze si sente come un burattino, un automa, qualcuno che recita una parte, che dice alcune cose senza di fatto percepirne il senso, trovandole buffe o prive di senso. Questo può ostacolare la comunicazione, soprattutto la comunicazione emotiva, l’espressività. Depersonalizzazione si riferisce all’estraneità rispetto al proprio corpo, quindi al sentirsi fuori dal corpo, o come in un guscio, in un’armatura, dietro una maschera. Sono coinvolte anche le funzioni mentali, per cui non si avverte più la spontaneità del flusso dei pensieri, si ricordano le cose ma si stenta a riferirle a sé, quasi come se ci si ricordasse di un se stesso in terza persona. Nel momento in cui la depersonalizzazione aumenta o inizia c’è la paura di perdere contatto con la realtà, con se stessi, di non riuscire più a sapere cose fondamentali come la propria identità, il tempo e lo spazio in cui si agisce, il senso emotivo delle cose e dei rapporti.
La derealizzazione è comune durante gli episodi depressivi, si parla di depersonalizzazione affettiva per indicare l’inaridimento emotivo del paziente depresso. E’ comune durante o dopo gli attacchi di panico, e può persistere per ore o giorni insieme alla paura di un nuovo attacco o con uno stato di debolezza e demoralizzazione. Può essere una condizione premonitrice di crisi psicotiche, specialmente in questo caso associata ad uno stato di perplessità, in cui la persona è assorbita dall’idea di dover mettere a fuoco qualcosa: la realtà si scompone per lasciare il posto ad una nuova configurazione, rimane sospeso come chi deve attendere il momento giusto per capire qualcosa.
E’ molto frequente che uno stato di derealizzazione continuo si sviluppi come espressione di un disturbo ossessivo. Negli stati di preoccupazione ossessiva per le proprie funzioni mentali, o per elementi riguardanti le proprie emozioni, i propri rapporti con gli altri e la giustezza delle proprie azioni, nel tempo la persona tende a vivere in una specie di “binario” ossessivo che lo tiene separato dalla realtà. All’inizio questo può essere una posizione di distacco necessaria a pensare, razionalizzare, riflettere e analizzare le cose alla ricerca del migliore ordine o della risposta più convincente. Alla fine invece diviene una condizione di distanza, di fluttuazione, come di chi è disabituato al contatto immediato e intuitivo con la realtà, e quindi la esamina ancor prima di averla assorbita, dal proprio respiro alle parole dette dagli altri, alle cose che si parano davanti agli, alle azioni da compiere. Le persone in preda alla derealizzazione ossessiva si sentono o sono rallentate, impacciate, congelate. Si sentono esiliate in una realtà parallela da cui si vede tutto, si sente tutto, e si riesce anche volendo a fare tutto, ma in maniera innaturale, dovendo per forza “recitare” o senza riuscire ad essere naturali. Il tutto comporta quindi uno sforzo insostenibile, nel senso che anche ci si pensa mentre si pensa, si agisce, si parla, il tutto come se si dovesse “editare” o passare in rassegna il proprio esistere secondo per secondo prima di farlo uscire, o di far entrare messaggi da fuori. Di solito la derealizzazione ossessiva si accompagna a domande assolute e prive di costrutto, del tipo “giusto o sbagliato”, “buono o cattivo”, “fa parte di me o non fa parte di me”, etc riferiti a qualunque stimolo esterno, dalle facciate delle case alle persone che si incontrano.
La cura dei sintomi di depersonalizzazione deve partire dalla diagnosi. Dopo aver impostato le cure per la diagnosi di fondo è bene attendere un certo numero di settimane, perché si tratta di sintomi a lenta risoluzione. Nelle forme ossessive in particolare può essere utile una psicoterapia. Alcuni farmaci possono inizialmente peggiorare queste sensazioni. Viceversa, alcuni farmaci possono attenuarli ma producendo nel tempo un maggiore appiattimento affettivo.
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