La depressione è una malattia. Con questo termine però si indica una diagnosi, e non semplicemente un’espressione di uso comune, né il modo in cui la persona può descriversi dicendo “sono depresso”. Depressione come malattia corrisponde ad uno stato di riduzione dell’attività del cervello “psichico”, cioè di quello da cui derivano le principali manifestazioni del pensiero, del comportamento e del sentimento. E’ una malattia perché ha un suo andamento che è quello, in maniera stereotipata, e benché produca sofferenza nella persona, altera i meccanismi che (in una persona normale) permettono di risolvere la sofferenza o di “reagire”.
Andare a cercare i “perché” vicini o lontani è un esercizio che riesce sempre, perché nella vita ci sono o ci sono stati eventi che possono aver prodotto sentimenti o periodi di tristezza, delusione e sfiducia. Questi sentimenti normali nella reazione a eventi negativi non sono la depressione. Il fatto che un episodio depressivo si sviluppi dopo un evento importante negativo è vero solo in una parte dei casi, ma questa sequenza è spesso fasulla: spesso l’evento negativo è già una prima conseguenza della depressione che si sta sviluppando, e che porta con sé il ritiro, la perdita dell’iniziativa, la tendenza a rompere i legami, o l’incapacità di realizzare progetti. E’ quindi più vero che come conseguenza della depressione si producano eventi negativi, che non il contrario. Inoltre, molte persone si deprimono e contemporaneamente perdono terreno socialmente o nelle relazioni personali, per cui questo porta gli altri a pensare che la causa stia in questi insuccessi, o nel riconoscimento degli errori fatti. Tipiche sono le depressioni dopo tradimenti coniugali, o dopo aver subito dissesti economici o problemi legali: in questi casi l’attenzione dovrebbe essere anche rivolta allo stato mentale “precedente”, cioè quello con cui la persona ha, magari superficialmente, preso decisioni avventate, o si è coinvolto in situazioni che poi gli si ritorcono contro. La depressione in questi casi è solo il punto di arrivo di un fenomeno “doppio” con una fase euforica prima e una depressiva a seguire.
Questo è un pregiudizio diffuso. Se la depressione non fosse una malattia come è, potrebbe essere ogni altra cosa. Alcune forme di depressione sono prese più sul serio, altre non sono minimamente credute, e sono quelle cosiddette “atipiche”, in cui la persona mantiene alcune funzioni fondamentali, e magari riesce anche a star bene in determinate circostanze, ma inspiegabilmente sembra che ogniqualvolta può si ripieghi su se stessa per piangersi addosso o aversene a male per torti o rammaricarsi perché non ha stimoli. Ci sono ad esempio forme di depressione in cui una persona può sembrare normale al lavoro, ma una volta a casa passare giornate intere, soprattutto quelle libere, isolata e spaventata dall’idea di uscire, incontrare qualcuno, essere cercata, e essere messa di fronte a pensieri passati, rimpianti, ricordi.
E’ una questione che non sussiste. Chi è depresso non risponde né ai tentativi di forzarsi, né alle scosse date dagli altri. Quel che è forzato è la parte mobile della depressione, cioè l’ansia, che peggiora, o l’aggressività. I familiari spesso si lamentano che la persona depressa, ogniqualvolta la si interroga o si cerca di farla reagire, si agita, magari piange, o reagisce sì, ma accusando gli altri di non capirla, dicendo di voler essere lasciata in pace, o semplicemente allontanandoli in malo modo.
La persona depressa ha spesso quest’idea già molto viva dentro di sé. Se non proprio di far soffrire gli altri, pensa comunque di deluderli, o di dar loro fastidio con la sua presenza. Quando gli altri si sfrozano di rendersi utili, o di sostenere chi è depresso, o di “scuoterlo” anche in maniera bonaria, con battute, o dicendogli appunto che “anche loro soffrono a vederlo così”, la persona depressa percepisce questo come un messaggio di fastidio e di stizza, e magari lo trova anche giustificato, perché chi è depresso è il primo a non vedersi positivamente nella condizione in cui è.
A volte i familiari dicono “alla fine dovrete curare anche me perché la depressione è venuta anche a me”, ma questo tipo di commento è da evitare di fronte alla persona depressa.
Altra osservazione non costruttiva è quella che si fa quando le persone depresse migliorano ma non in maniera decisiva, commentando ad esempio “la cura di aiuta, ma ci devi mettere anche del tuo” oppure “però bisogna anche reagire”. In nessuna malattia si pretenderebbe che metà dei sintomi vadano via con la cura e l’altra metà li mandi via il malato da solo. Così come il depresso grave non può farci nulla, neanche il depresso meno grave può.
I depressi spesso sono inariditi emotivamente, cioè provano emozioni tutte negative, o non ne provano più, come se fossero svuotati, troppo deboli per sentire, o troppo sfiduciati per essere coinvolti da un sentimento. Si sentono in colpa per questo, specialmente le madri e i padri nei confronti dei figli, e ne provano vergogna, come se fosse non una malattia ma un difetto morale. Può accadere però che alla depressione “calma” si alterni l’irritabilità, con la tendenza a rinfacciare, a accusare gli altri di non dare abbastanza, di non aiutare, e così via. Specialmente nei giovani e nelle donne, o nelle forme con uso di alcol o droghe questi aspetti possono diventare logoranti per i familiari. Vi possono essere crisi di aggressività, con rottura di oggetti, mobilio, autolesionismo. Si tratta di aspetti che orientano la diagnosi verso una depressione appartenente ad un disturbo dell’umore più compesso, come quello bipolare, piuttosto che non ad una depressione semplice.
La percezione che il depresso ha di sé è negativa e peggiorativa: cioè si vede male e anche peggio di come è, ma soprattutto non riesce a dar giudizi positivi, per cui se gli si dice che “in fondo” non sta poi così male scuoterà la testa e dirà il contrario, che peggio non può stare. E’ una sorta di pessimismo su di sé, in cui anche se si funziona ancora bene, si prevede che sia l’inizio di una decadenza inevitabile. Le persone anziane spesso si presentano dicendo di essere incapaci di fare la minima cosa, di non capire più niente, di non esserci più con la testa, di non saper più leggere, scrivere, contare, di non ricordare più niente, neanche come si fa a cucinare o a guidare l’auto. In realtà questi deficit sono apparenti, e non devono essere scambiati per problemi tipo demenza, sono la cosiddetta “falsa demenza depressiva”. C’è ugualmente anche nei giovani, in cui però è evidente che non possa essere demenza e quindi appare ancora più assurda. Ci sono ragazzi sportivi che improvvisamente non ricordano più i movimenti del loro sport, che non riescono quasi a ricordare come facevano a giocare o ad allenarsi, artisti che non vogliono neanche vedere le loro opere perché pensano che non torneranno più a dipingere, o a suonare, o a scrivere. Il tutto è quindi un punto di vista depressivo, amplificato e sostenuto come vero (anche se non nel presente, sicuramente nel futuro) da chi lo vive. Addirittura, a volte è un punto di vista che si estende a passato.
La memoria di una persona depressa mette in evidenza gli aspetti negativi e minimizza quelli positivi, come se il senso ultimo e vero di tutto fosse il dolore del presente. E’ come se stesse recuperando tutti gli elementi per spiegare come “si è ridotto così”, a volte per destino, a volte per colpa, a volte per ingiustizie subite, oppure per errori commessi, ma insomma è sempre una storia in cui le cose potevano sembrare anche positive, ma in realtà non lo erano, visto come poi sono finite.
Spesso chi è depresso dice di essere sempre stato infelice, o fallito, o di non aver combinato niente di buono, di aver sbagliato tutto. I familiari si sentono magari mortificati perché in questa storia loro non contano più niente, o sono considerati esempi di errori e fallimenti. Una persona depressa può sentire di aver fallito come padre o madre, come figlio, nel lavoro, vedere i risultati della propria vita come errori o disfatte. Questo tipo di visione non deve essere scambiata per una riflessione libera, e opporsi porta semplicemente ad agitare chi la vive senza riuscire a convincerlo del contrario.
No. La depressione non è esclusiva di un carattere, e colpisce anche e spesso persone che sono sempre state esuberanti o iperattive. In queste persone il cambiamento si nota bene e prima, perché è come se cambiassero radicalmente personalità, mentre in chi parte già depresso l’inizio è più subdolo.
La depressione non è questione di età. Esiste anche nei bambini, negli adolescenti è frequente. La visione della giovinezza che hanno gli adulti non corrisponde spesso a quella di chi la vive, che alterna momenti di entusiasmo a fasi di profondo sconforto. In queste fasi un giovane è molto vulnerabile, perché non avendo ancora raggiunto obiettivi definitivi o comunque importanti, quando si deprime pensa che non li raggiungerà mai, o di aver fallito ancor prima di aver combinato qualcosa. Spesso i sensi di colpa e di vergogna sono forti nei confronti delle figure di riferimento, i genirori ad esempio, soprattutto nelle famiglie unite in cui il legame e la volontà di soddisfare le aspettative dei genitori è alta. Un brutto voto, una delusione sentimentale, nei ragazzi possono essere temi di profondo sconforto, vissuti paradossalmente come dei danni irrimediabili, o delle occasioni che non si ripeteranno più, o delle squalifiche definitive.
Quando la depressione inizia da giovani, solitamente c’è già una storia familiare, e quindi una componente genetica. Sembra anche che parte della trasmissione della vulnerabilità allo stress, sia trasmissibile da madre a figlio per via ambientale, e non genetica forse attraverso il meccanismo di accudimento. Esperienze di vita importanti e continuate che mettono in pericolo la sopravvivenza possono quindi in maniera anche inconsapevole indurre una particolare suscettibilità allo stress che perdura nel tempo, anche se le condizioni migliorano.
Si può dire che però la classica depressione è spontanea, e che anche quando inizia dopo eventi negativi di solito appare chiaramente sproporzionata e slegata ad essi, per tipo di pensieri, di reazioni e per durata.
Le funzioni fondamentali sono due. L’accudimento come si farebbe con un qualsiasi malato, e l’accompagnamento nel percorso di cura. Questi sono comportamenti semplici che sono apprezzati quando la persona recupera le sue funzioni, e che non sollecitano inutilmente la componente ansiosa. L’unica insistenza che può aver senso è quella rispetto alla cura, anche senza contraddire il malato sul suo punto di vista, ma semplicemente indicandogli l’opportunità di curarsi. Spesso i malati depressi si curano per far piacere ai parenti, o per passività, o perché si sentono più agitati a rifiutare le cure deludendo i parenti che non fiduciosi nell’effetto delle cure stesse, oppure perché pensano che così almeno dovranno vergognarsi di meno di fronte agli occhi dei parenti che insistono. Come risultato, nonostante la sfiducia nella cura, la visione negativa che non ammette critiche, e la passività che non avrebbe fatto pensare che valesse la pena provare a star bene, molti malati sostenuti dai familiari finiscono per curarsi efficemente e risolvere la loro condizione.
Contattami su WhatsApp!