Il comportamento alimentare risponde fondamentalmente a due tipi di spinte. Una è la fame, che permette di capire quando l’organismo ha finito o sta per finire le proprie risorse, e spinge a fare un nuovo “carico”. La fame esprime un bisogno. Mangiando, il bisogno è soddisfatto e la fame si placa. L’altra spinta è l’appetito, che è una voglia, e si fa sentire anche quando non ce n’è bisogno. Sembrerebbe strano, ma ciò che fa sopravvivere alcune specie è l’appetito. Alcuni animali ad esempio trovano cibo una volta ogni tanto, quindi sopravvivono solo se mangiano tutto quello che trovano, in modo da poter passare anche lunghi periodi senza mangiare, usano le scorte già digerite. Non hanno bisogno di mangiare tutto quel cibo, ma lo fanno perché hanno l’appetito. Se avessero solo fame, mangerebbero un po’, e soltanto quando rimangono “a secco” di energie.
Anche nell’uomo l’appetito è una spinta molto forte. Quando si digiuna, la fame potenzia l’appetito, ma anche quando la fame cessa si prosegue a consumare il cibo. Mangiare è fondamentalmente un piacere, e specialmente nella nostra società in cui la carenza di cibo è improbabile, il rapporto con il cibo diventa un rapporto di piacere. L’appetito, a differenza della fame, quando incontra il cibo non si placa, ma anzi all’inizio aumenta. Si dice “l’appetito vien mangiando”, mentre la fame mangiando cessa …
Anche in questo caso, nella nostra società il cibo è disponibile finché se ne vuole, cosicché l’appetito è facilmente stimolabile.
Come su tutti gli istinti, si può perdere il controllo sull’appetito, nel senso che si può mangiare oltre le proprie intenzioni, e senza averne bisogno (cioè non per fame). Se il soprappeso fosse una condizione vista positivamente, oggetto di lodi e apprezzamenti, il disagio sarebbe attenuato. Non eliminato, perché non avere il controllo è di per sé il nucleo della patologia, e genera disagio.
Comunque, nella nostra società il soprappeso è una condizione oggetto di commenti negativi, o nei casi migliori di bonario umorismo. Al contrario, l’essere magri, anche sottopeso, è oggetto di commenti positivi: anche il sottopeso che esteticamente non genera ammirazione, spesso la genera perché si ritiene che chi è magro sia in grado di controllare se stesso, il che è ritenuto segno di “forza di volontà”. Nei tempi passati, in cui la fame era una realtà, essere in lieve soprappeso era sinonimo di salute, bellezza e fascino, mentre essere sottopeso era segno di malattia, povertà e elemento di bruttezza. Cambiando il primato sociale (dell’appetito invece che della fame), cambia anche il modello culturale, e così oggigiorno il controllo dell’appetito è il metro di giudizio: chi è grasso non lo controlla, e quindi criticabile, chi è magro lo controlla, e quindi lodevole.
I disturbi del comportamento alimentare che originano dal rapporto tra appetito e ambiente (cibo e cultura della magrezza) sono
– quelli da iperalimentazione: bulimia nervosa, disturbo da crisi bulimiche, disturbo da iperalimentazione
– quelli da sottoalimentazione: anoressia nervosa
Bulimia: ricorrenti episodi di iperalimentazione, in cui si assume cibo in grande quantità, “tutto” quello a disposizione, voracemente e tutto insieme, mescolando quindi i cibi in maniera inusuale. Si inizia ad abbuffarsi per appetito, a volte improvviso (per esempio svegliandosi di notte) ma anche in maniera pianificata (facendo prima il pieno al supermercato, oppure portando con sé fuori casa una borsa piena di cibo). Si smette di abbuffarsi perché lo stomaco “tira”, oppure perché subentra nausea, oppure perché sopraggiungono altri. Per evitare le conseguenze “disastrose” in termini calorici, spesso immaginate come un mostruoso aumento di peso, o per la vergogna di essersi abbuffati, i malati ricorrono a vari rimedi: vomitare, assumere lassativi, o diuretici con l’idea che dimagrire e “sgonfiare” siano equivalenti, e magari perché sgonfiare dà un sollievo immediato mentre dimagrire sarebbe lento. Altri rimedi possono essere saltare il pasto successivo, oppure assumere prodotti per contrastare la digestione e non assorbire il materiale ingerito, oppure usare prodotti che riducono temporaneamente l’appetito e permettono di digiunare per un po’.
Il peso della bulimica può oscillare, ma anche essere normale, e quindi non dare adito di per sé a sospetti.
Questi comportamenti sono pericolosi. Se di abbuffata non si muore, vomitare, produrre squilibri idrosalini con i diuretici, danneggiare l’intestino interferendo con la funzione, e di fatto nutrirsi male (tra pasti vomitati e digiuni) possono invece essere alla lunga letali.
Gli squilibri idrosalini e il vomito si associano a rischio di aritmia cardiaca letale, il vomito ripetuto a lacerazioni dell’esofago con sanguinamento interno e talora rottura dell’esofago, l’uso di lassativi produce atrofia della mucosa del colon con rischio di lesioni intestinali anche irreversibili.
Alimentazione incontrollata: quando non vi sono vere e proprie abbuffate, può esservi piuttosto una spinta frequente a assumere cibo, tanto da disseminare la giornata di pasti più o meno consistenti, e da rendere i pasti canonici tendenzialmente maggiori in quantità. I comportamenti possono indicare una vera e propria dipendenza da cibo, con consumazione furtiva del cibo, dispendio di soldi e tempo nel procurarlo e consumarlo, negazione o minimizzazione. In questo caso il peso aumenta fino all’obesità.
Anoressia: la persona è preoccupata di dimagrire. Non è sufficiente mantenere il proprio peso, ma mantenerlo al di sotto della normalità, o ridurlo. La persona non critica questa idea, anche perché l’essere snella è motivo di apprezzamento, l’essere magra spesso è preferibile all’essere grassa. In casi estremi la persona ha una distorsione della propria percezione corporea, per cui ritiene di essere grassa, gonfia e pesante di fronte ad un peso abnormemente basso, e identifica la massa corporea come “eccesso”, “grasso” inaccettabile. L’anomalia di questa condizione è la capacità forte e inarrestabile della persona di contrastare l’appetito, che fino in fondo continua a praticare esercizio fisico in un bilancio calorico sempre più “in perdita”. Il peso del malato di anoressia si riduce, con conseguenze varie. Nella donna un segno tipico è l’interruzione del ciclo mestruale.
Il malato di anoressia nasconde la propria condizione per non essere ostacolato, pensando comunque che “ne valga la pena” al di là di ogni rischio.
Anoressia è un termine che si usa anche nel linguaggio comune, ma si usa come sinonimo di “essere magri” o “non aver fame e non mangiare”. L’Anoressia nervosa è invece una malattia in cui il problema non è il non aver fame e quindi non mangiare e dimagrire, ma avere una fortissima motivazione a dimagrire senza limiti, con conseguente allontanamento dal cibo.
In realtà lo stesso disturbo può passare attraverso fasi diverse, di restrizione alimentare e di abbuffate, spesso però con una certa continuità della preoccupazione per il peso corporeo e di alcune condotte tese a non ingrassare o a dimagrire (per esempio vomitare nella bulimia, non mangiare o fare esercizio fisico nell’anoressia). Si ha quindi l’impressione che, almeno per una parte dei casi, le fasi anoressiche siano espressione di un controllo sul cibo tale da spengere l’appetito e controllare la fame, mentre la bulimia sia una incapacità di controllare un appetito. Un disturbo che inizia con anoressia tende, come un elastico che si tende, a aumentare l’appetito, cosicché ad un certo punto, a momenti o a periodi, l’appetito prevale e si verificano abbuffate, con conseguenti condotte di eliminazione. Un disturbo che inizia con iperalimentazione può in seguito attraversare una fase di ipercontrollo con dimagrimento importante.
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