Si tratta di un trattamento che deriva dall’effetto della corrente elettrica sull’encefalo.
Lo stimolo elettrico è applicato per un tempo brevissimo (0,5-2”), in anestesia generale, associata ad un trattamento che minimizza la capacità degli impulsi nervosi di far contrarre la muscolatura scheletrica, senza invece eliminare la capacità della corrente elettrica di stimolare il tessuto nervoso. Si dice solitamente per essere efficace lo stimolo deve produrre convulsioni: questo non significa che sia la convulsione a produrre l’effetto terapeutico, ma semplicemente che quando lo stimolo non produce convulsione, è probabile che il trattamento non sarà efficace. Le convulsioni sono la manifestazione periferica dell’attività elettrica indotta nel sistema nervoso centrale (misurabile con l’EEG), che è il vero evento associato all’effetto terapeutico.
Per come il trattamento è praticato oggi, la convulsione è resa appositamente molto debole (a cose normali sarebbe ancora più forte di quella prodotta da una crisi epilettica spontanea), per evitare danni muscolo-scheletrici, ma comunque rimane osservabile tramite l’EEG in modo da avere un parametro per prevedere l’efficacia.
L’origine teorica della Tec può esser fatta risalire a L.J.Meduna sviluppò, secondo cui schizofrenia e epilessia erano due disturbi “antagonisti”, poichè nella sua casistica le persone epilettiche sembravano “protette” dalla psicosi (che ai tempi di etichettava come schizofrenia con criteri diversi da oggi). Inoltre, l’induzione di stati febbrili aveva dimostrato una certa efficacia in alcune forme di psicosi progressiva da sifilide, al tempo un problema di rilievo. Nel 1933 M.Sakel mise a punto una tecnica per indurre crisi epilettiche “apposta” in malati mentali per cercare di contrastare i sintomi della schizofrenia. Sakel fece ricorso all’insulina, mediante la quale induceva uno stato temporaneo di coma ipoglicemico, durante il quale si verificavano crisi epilettiche. Altri approcci furono la somministrazione di farmaci che inducevano direttamente crisi epilettiche e, come gi‡ era stato praticato, l’induzione di stati febbrili per sfruttare la relazione tra febbre e convulsioni.
L’idea di indurre convulsioni somministrando uno stimolo elettrico fu concretizzata dagli psichiatri italiani Cerletti e Bini nel 1938. La tecnica fu perfezionata a studiata scientificamente in un numero di casi tali da far concludere che era affidabile per risolvere le fasi acute della psicosi maniaco-depressiva (attualmente denominata disturbo bipolare I), della schizofrenia acuta (dizione oggi desueta a cui corrispondono diverse condizioni, incluse le forme meno tipiche di psicosi bipolare) e della depressione grave. Il fatto che ricerche recenti abbiano escluso l’utilità nella schizofrenia non deve essere considerata contraddizione, poichè le categorie diagnostiche degli anni ’30 e quelle attuali non sono sovrapponibili, e la “schizofrenia acuta” corrispondeva in gran parte a quel che oggi includeremmo nella diagnosi di disturbo bipolare.
Ugo Cerletti era un medico italiano che si perfezionò in psichiatria alla scuola di Kraepelin. Gli strumenti terapeutici erano allora ancora scarsi e grossolani, e prevalentemente rivolti alle gravi malattie alienanti, ovvero la schizofrenia e le altre psicosi. All’epoca si stavano elaborando diverse tecniche per produrre accessi epilettici nei malati di schizofrenia, secondo la teoria i fenomeni presenti nell’epilessia (convulsioni) in qualche modo sarebbero stati antagonisti di quelli della schizofrenia. Tra i metodi utilizzati vi erano il coma insulinico, la somministrazione di cardiazol, la produzione di stati febbrili acuti (anche per via infettiva, come per mezzo del plasmodio della malaria). Quale professore di psichiatria dell’Università di Roma, in collaborazione con il professor Lucio Bini, mise a punto il primo apparecchio per indurre convulsioni mediante l’applicazione di corrente elettrica al cranio.
Cerletti stesso stese un resoconto di quel primo esperimento.
“Vanni mi informò che al macello di Roma i maiali venivano ammazzati con la corrente elettrica. Questa informazione sembrava confermare i miei dubbi sulla pericolosità dell’applicazione dell’elettricità all’uomo. Mi recai al macello per osservare questa cosiddetta macellazione elettrica, ,e notai che ai maiali venivano applicate alle tempie delle tenaglie metalliche collegate alla corrente elettrica (125 volt). Non appena queste tenaglie venivano applicate, i maiali perdevano conoscenza, si irrigidivano e poi, dopo qualche secondo, erano presi da convulsioni, proprio come i cani che noi usavamo per i nostri esperimenti. Durante il periodo di perdita della conoscenza (coma epilettico) il macellaio accoltellava e dissanguava gli animali senza difficoltà. Non era vero, pertanto, che gli animali venissero ammazzati dalla corrente elettrica, che veniva invece usata, secondo il suggerimento della Società per la prevenzione del trattamento crudele degli animali, per poter uccidere i maiali senza farli soffrire. Mi sembrò che i maiali del macello potessero fornire del materiale di grandissimo valore per i miei esperimenti. E mi venne inoltre l’idea di invertire la precedente procedura sperimentale: mentre negli esperimenti sui cani avevo tentato sempre di utilizzate la minima quantità di corrente,, sufficiente a provocare un attacco senza causar danno all’animale, decisi ora di stabilire la durata temporale, il voltaggio e il metodo di applicazione della corrente, necessari a provocare la morte dell’animale. L’applicazione di corrente elettrica sarebbe stata dunque attraverso il cranio, in diverse direzioni, e attraverso il tronco, per parecchi minuti. La prima osservazione che feci fu che gli animali raramente morivano, , e questo solo quando la durata del flusso di corrente elettrica passava per il corpo e non per la testa. Gli animali ai quali veniva applicato il trattamento più severo rimanevano rigidi mentre durava il flusso do corrente elettrica, poi dopo un violenti attacco di convulsioni, restavano fermi su un fianco per un poco, alcune volte per parecchi minuti, e finalmente tentavano di rialzarsi. Dopo molti tentativi di ricuperare le forze, riuscivano finalmente a reggersi in piedi e a far qualche passo esitante, finché erano in grado di scappar via. Queste osservazioni mi finirono prove convincenti del fatto che un’applicazione di corrente da 125 volt della durata di alcuni decimi di secondo sulla testa, sufficiente a causare un attacco completo, non arrecava alcun danno. A questo punto, ero convinti che avremmo potuto tentare di fare degli esperimenti sugli uomini, e diedi istruzione ai miei assistenti affinché tenessero aperti gli occhi per selezionare un soggetto adatto.Il 15 aprile 1938 il commissario di polizia di Roma mandò nel nostro Istituto un individuo con la seguente nota di accompagnamento: «S. E., trentanove anni, tecnico, residente in Milano, arrestato nella stazione ferroviaria mentre si aggirava senza biglietto sui treni in procinto di patire. Non sembra essere nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, e lo invio nel vostro ospedale perché venga posto sotto osservazione…». Le condizioni del paziente al 18 aprile erano le seguenti: lucido, ben orientato. Descrive, usando neologismi, idee deliranti dicendo di essere influenzato telepaticamente da interferenze sensoriali; la minima corrisponde al senso delle parole; stato d’animo indifferente all’ambiente, riserve affettive basse; esami fisici e neurologici negativi; presenta cospicua ipoacusia e cataratta all’occhio sinistro. Si arrivò ad una diagnosi di sindrome schizofrenica sulla base del suo comportamento passivo, l’incoerenza, le basse riserve affettive, allucinazioni, idee deliranti riguardo alle influenze che diceva di subire, i neologismi che impiegava. Questo soggetto fu scelto per il primo esperimento di convulsioni elettricamente indotte sull’uomo. Si applicarono due grandi elettrodi alla regione frontoparietale dell’individuo, e decisi di iniziare con cautela, applicando una corrente di bassa intensità, 80 volts, per 0,2 secondi. Non appena la corrente fu introdotta, il paziente reagì con un sobbalzo e i suoi muscoli si irrigidirono; poi ricadde sul letto senza perdere conoscenza. Cominciò improvvisamente a cantare a voce spiegata, poi si calmò. Naturalmente noi, che stavamo conducendo l’esperimento, eravamo sottoposti a una fortissima tensione emotiva, e ci pareva di aver già corso un rischio notevole. Nonostante ciò, era evidente per tutti che avevamo usato un voltaggio troppo basso. Si propose di lasciare che il paziente si riposasse un poco e di ripetere l’esperimento il giorno dopo. Improvvisamente il paziente, che evidentemente aveva seguito la nostra conversazione, disse, chiaramente e solennemente, senza alcuna parvenza della mancanza di articolazione del discorso che aveva dimostrato fino ad allora: «Non un’altra volta! è terribile!” Confesso che un simile esplicito ammonimento, in quelle circostanze, tanto enfatico ed autorevole, fatto da una persona il cui gergo enigmatico era stato fino a quel momento assai difficile da comprendere, scosse la mia determinazione di continuare l’esperimento. Ma fu solo il timore decidere ad un’idea superstiziosa che mi fece decidere. Gli elettrodi furono applicati nuovamente, e somministrammo una scarica di 110 volts per 0,2 secondi. » (riportato da Thomas Szasz, op cit.)
La testimonianza del medico Ayd, che riportò lo sconcerto di Cerletti stesso per il carattere cruento e doloroso della procedura “Quando vidi la reazione del paziente, pensai: questo dovrebbe essere abolito! Da quel momento ho sperato ed aspettato che si scoprisse un nuovo trattamento che sostituisse l’elettroshock”. Questa testimonianza non è certamente rivelatoria, poiché è Cerletti stesso a descrivere nel resoconto senza mezzi termini la reazione di terrore del paziente, il proprio stato d’animo e la titubanza come scrupolo proprio nei confronti della costrizione ad una procedura dolorosa e sperimentale, per quanto con intento terapeutico. A conferma della trasparenza del suo perato, Cerletti stesso afferma nel 1948 “Lo dissi già fin dalla prima volta che io presentavo l’E.S., che mi auguravo che questo metodo aggressivo, violento, venisse al più presto abbandonato per metodi meno drastici, e sto lavorando attivamente in questo senso: sarò il primo a rallegrarmi quando l’E.S. non verrà più applicato.” E nel 1950, durante il Primo Congresso Internazionale di Psichiatria a Parigi: “Questo non impedisce che malgrado tutte queste difficoltà, noi lavoriamo continuamente nella speranza di potervi dire un giorno: Signori, l’Elettroshock non si fa più. Noi abbiamo trovato le sostanze che si producono nel cervello a seguito dell’accesso epilettico e noi possiamo impiegarle nel trattamento di differenti malattie così semplicemente come si fa con altre sostanze farmacologiche”. L’affermazione riportata da Ayd, che allude ad un barlume di scrupolo subito soffocato in nome di una folle e sadica sperimentazione, si riferisce semplicemente all’auspicio che il progresso della medicina rendesse quella tecnica, allora unica e miracolosa, non dolorosa e accettabile per i malati, consenzienti o meno.
Cerletti quindi non si affezionò al suo strumento ma tentò di superarlo e di capirne di più, preoccupato innanzitutto di mettere a punto un trattamento basato sugli stessi principi ma indolore: “Cerletti continuò a lavorare all’elettroshock fino alla morte. «Formulò una teoria secondo la quale i mutamenti umorali ed ormonali provocati nel cervello da un attacco epilettico, portano alla formazione di certe sostanze che egli chiamò ‘acroagonine’, sostanze di estrema difesa. Queste sostanze, se iniettate al paziente, avrebbero avuto effetti terapeutici simili a quelli dell’elettroshock» (Di Cori, 1963 in Thomas S. Szasz, op. cit., 428-431).
I limiti etici dell’esperimento del 1938 sono evidenti, ovvero la somministrazione di un trattamento sperimentale ad un individuo che, per quanto gravemente alterato e senza poter beneficiare di altre possibili soluzioni terapeutiche, non era né terminale né in imminente pericolo di vita. L’estensione del trattamento ad altri casi similari, in maniera più o meno sistematica, fu anch’essa fuori dai canoni etici attuali, poiché un caso non poteva dimostrare benefici sicuri né duraturi, o assenza di danni a seguire.
Questi limiti non sembrarono interessare le comunità scientifiche di vari paesi, forse anche in relazione alla scarsità di alternative terapeutiche, che in confronto alla TEC erano forse meno dolorose ma con maggior indice di letalitù e di tossicità.
La legislazione sanitaria Italiana recepisce la nuova tecnica come opzione da preferirsi, presumibilmente per motivi di sicurezza e gestione e forse anche di costi, al coma insulinico: “allo scopo di ridurre al massimo il consumo di insulina e tenuto conto che d’altra parte dei buoni risultati e dei vantaggi che si ottengono con l’uso dell’ESK in varie forme morbose mentali, questo Ministero intende che l’impiego di tale terapia sia maggiormente diffuso negli ospedali psichiatrici del Regno in modo che non si faccia più ricorso all’ICT se non dopo aver sperimentato l’ESK”. (Divisione Sanitaria nota del 21 Ottobre 1940 – Citato da Enzilio Lupo in Psichiatria e Nazismo “Atti del convegno”). All’epoca dell’entrata in guerra dell’Italia la TEC quindi non era sperimentale. Non solo, ma si era già diffusa in altri stati europei e negli Stati Uniti {CIT}. Zigmond M. Lebensohn nell’articolo “The History of Electroconvulsive Therapy in the United States and Its Place in American Psychiatry: A Personal Memoir,” (Comprehensive Psychiatry, May-June 1999), riferisce che un collaboratore di Cerletti, Renato Almansi, trasportò un apparecchio per la TEC di fabbricazione italiana negli USA nel 1939, dove la procedura fu realizzata per la prima volta a New York, 27 West 55th Street, dal Dr. David Impastato nel Gennaio del 1940, su una paziente di origine italiana affetta da schizofrenia.
Bisogna distinguere innanzitutto le situazioni in cui la Tec è di provata efficacia da quelle in cui è attualmente impiegata, e inoltre le condizioni in cui è preferibile ad altri trattamenti.
La Tec è utile nella depressione grave, specie se complicata da psicosi. E’ inoltre impiegata con un successo più o meno del 50% in quei casi di depressione grave che non rispondono ai farmaci nè alle psicoterapie. Si puÚ scegliere come primo intervento in alcuni casi in cui si vogliano ottenere sulla depressione grave miglioramenti rapidi e scongiurare il rischio di suicidio, o risolvere stati di arresto psicomotorio. E’ l’opzione meno rischiosa in pazienti che per cui i farmaci sono controindicati o nella depressione a rischio durante la gravidanza, in cui i farmaci sono controindicati.
L’uso in seconda battuta nella depressione resistente Ë quello pi_ tipico, anche se probabilmente non è il più ragionevole. Esistono infatti condizioni in cui la Tec è un intervento “di prima battuta”, e in alcuni casi preferibile ai farmaci proprio perchè meno rischiosa e priva di alcuni effetti collaterali che con le lunghe terapie farmacologiche sono inevitabili. In generale, il vantaggio della Tec sta nella rapidità dell’effetto e nel minor numero di effetti collaterali (aumento di peso, disturbi della sfera sessuale, rischio cardiaco). Alcune delle condizioni in cui i farmaci sono controindicati sono anche incompatibili con la Tec (per esempio pazienti a rischio cardiologico o con lesioni cerebrali). Sicuramente è ragionevole scegliere la Tec in pazienti che già in passato ne hanno tratto beneficio, se non sono nel frattempo sopravvenute controindicazioni.
Gli effetti sono relativamente stabili, e nei pazienti con disturbi ciclici che ripetutamente sono migliorati con la Tec si sostiene sia utile una Tec preventiva da praticare periodicamente. Questa opportunit‡ Ë da valutare attentamente caso per caso. La Tec puÚ essere utile anche in alcuni disturbi affettivi non depressivi, o non solo depressivi, come la mania o gli stati misti e alcune forme atipiche di catatonia. In questi casi vi sono tuttavia evidenti limiti per quanto concerne il consenso da parte del paziente e la valutazione deve esser fatta sul caso specifico. Applicare la Tec ad altri disturbi o come ultima opzione per disturbi psichiatrici resistenti in generale non ha alcun fondamento scientifico.
Un trattamento consiste in più sedute, con intervalli di tempo di almeno 24 ore (meglio 48). Il numero delle sedute varia di solito da 6 a 12. Il voltaggio, la durata dello stimolo, la frequenza e la lunghezza, l’intensità. Tipicamente i parametri sono una corrente di 0,9 Ampere, 220-250 Volt fino a un massimo di 450. Tra il metallo degli elettrodi e lo scalpo del cranio si applica un gel che riduce l’impedenza della corrente, per evitare la produzione di calore e quindi di ustioni sulla pelle.
I rischi legati alla convulsione, come il soffocamento, le lesioni alla lingua, le lesioni da sforzo alla muscolatura, i traumi scheletrici sono controllati inducendo una paralisi artificiale dei muscoli con farmaci appositi (i cosiddetti “curari” sintetici). Per questo prima di iniziare il trattamento ci si accerta anche che il paziente metabolizzi bene questo tipo di farmaci, con un apposito esame del sangue.
Lo stimolo si può applicare su entrambi i lati o su un lato solo, anche se la combinazione dello stimolo monolaterale ad un basso voltaggio (per ridurre l’amnesia) si è rivelata inefficace sul piano terapeutico, anche se effettivamente meglio tollerata. I rischi autentici di una seduta di Tec, se si rispettano i criteri di selezione dei pazienti, sono quelli legati all’anestesia. Tra una seduta e l’altra devono passare almeno 24 ore, e si tende a prolungare questo intervallo per minimizzare l’amnesia.
Il trattamento può essere fatto da ricoverati, o in Day-Hospital come un piccolo intervento chirurgico. La decisione spetta al medico che si basa, oltre che su eventuali rischi particolari legati al trattamento, anche e prima di tutto sulla gravità e l’urgenza delle condizioni psichiche, che di per sé possono richiedere un ricovero.
La persona sottoposta allo shock (in 3 casi su 4) conserva una memoria confusa o non ricorda gli eventi nella immediata prossimità temporale (giorno) della seduta. Al risveglio può essere presente transitorio disorientamento, derivante dall’anestesia. A 6 mesi queste lacune sono ridotte esclusivamente al tempo di durata della seduta (ovvero l’anestesia, in cui la persona priva di conoscenza), mentre le altre lacune tendono a risolversi, anche se gradualmente. Precedenti revisioni dei dati (NIH e NIMH 1985) facevano riferimento a disturbi della memoria relativi a eventi dei mesi precedenti e fino a due mesi dopo il termine delle applicazioni di Tec: va tenuto presente che questi dati si riferiscono ad una casistica con diversi parametri di sicurezza e meno selezionata a livello psichiatrico. Inoltre, va tenuto presente che in diversi disturbi psichiatrici per i quali si utilizzava o si utilizza la Tec sono presenti disturbi della memoria e amnesie dopo la risoluzione delle fasi di malattia: l’amnesia può essere quindi in parte legata al disturbo in sé, oltre che effetto collaterale dei farmaci impiegati nelle terapie di mantenimento.
Per quanto riguarda l’idea che la Tec possa produrre danni strutturali o funzionali permanenti, nessuno degli studi eseguiti ha indicato una tale possibilità (Devanand 1994, Weiner e Krystal 1994, Greenberg 1997, NIH, NIMH 1985, CMHS 1998). Invece, è dimostrato che la Tec protegge dai danni che la depressione può indurre nel sistema nervoso centrale, cioè stimola la crescita e ostacola l’atrofizzazione delle cellule nervose (Dumas e Vaidya, 1998).
Nelle epoche in cui le terapie sono poche e le conoscenze scarse, si tende a utilizzare gli strumenti risultati utili per una malattia un po’ su tutto, magari a casaccio, secondo il principio che “tentar non nuoce”. Può darsi che in passato, specialmente in condizioni gravi come le psicosi, questa approssimazione si sia associata anche da un atteggiamento aggressivo nei confronti della malattia, e inevitabilmente anche nei confronti della persona affetta. C’è poi da notare che in passato il trattamento elettroconvulsivante si praticava senza anestesia, e senza la prevenzione della convulsione: questo produceva sofferenza all’atto dello stimolo ma anche rischio di danni muscolari, ossei e della spina dorsale.
E’ possibile che siano stati sottoposti a questo trattamento (come ad altri, o anche alla sola reclusione) persone non malate ma socialmente devianti, perché ritenute in qualche modo da rieducare o da neutralizzare. La stessa accusa è stata mossa ed Ë tuttora accampata contro alcune terapie farmacologiche, contro gli ospedali psichiatrici o i manicomi. Va tenuto presente inoltre che le diagnosi di un tempo seguivano criteri diversi, e che per esempio il fatto che un tempo di ritenesse la Tec utile nella schizofrenia deriva anche dal fatto che un tempo di indicava come schizofrenia ciò che oggi invece si indica con diagnosi diverse (per esempio la depressione psicotica e il disturbo bipolare).
L’idea che la psichiatria, e l’elettroshock come sua massima espressione, sia una tecnica di soppressione delle capacit‡ di critica e di ribellione degli individui socialmente scomodi, Ë un pregiudizio. La psichiatria, come branca della medicina, Ë una disciplina che mira a curare la sofferenza associata ai disturbi mentali, a abbreviarne la durata, controllarne i sintomi e a prevenire la ricorrenza, le conseguenze e il deterioramento nervoso che questi disturbi provocano a lungo termine.
E’ possibile concludere che la Tec Ë una tecnica psichiatrica efficace, utile in alcuni tipi di disturbi affettivi, e risorsa preferibile in alcune condizioni cliniche. Come tutti i trattamenti ha precise controindicazioni (cioè situazioni in cui non deve essere applicata), un livello di rischio e effetti collaterali accettabili. La Tec deve essere praticata secondo precise regole di sicurezza, al di fuori delle quali è da considerarsi un intervento non corretto e irragionevolmente rischioso, oltre che non affidabile.
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