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3 Maggio 2011
Published by Pacini on 3 Maggio 2011
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Vedere se stessi

Dalla più assoluta e media normalità, fino alle situazioni più strane o fuori controllo, il cervello non riesce a vedere se stesso. Il nostro vivere, il nostro essere persone che sentono, pensano e prendono iniziative non lo viviamo come l’espressione dell’attività di una parte del nostro corpo, ma come se venisse da un livello diverso, da qualcosa che sta “intorno” alla testa, e non dentro.

Quando ci si giudica, il legame con il “se stesso” che si vede agire e sentire (soffrire) non consente un esame corretto dei meccanismi di funzionamento, anche se consente di riportare i sintomi del proprio malessere senza saperne il nome tecnico. Quando l’equilibrio è sufficientemente conservato, non si va troppo dietro alle proprie interpretazioni, e ci si regola piuttosto sull’evidenza dei fatti.

Poiché il cervello non riesce a correggere automaticamente le proprie tendenze o insistere in direzioni che non gli sono congeniali, quando queste si irrigidiscono come espressione di un disturbo tendiamo a rimanere intrappolati dentro a convinzioni o impressioni che ci mandano o ci tengono fuori strada.

Insight

Nei disturbi mentali, anche quelli benigni, nel complesso la persona diventa più rigida, non nel senso di “statica”, ma nel senso che la sua posizione mentale diventa più prevedibile e a senso unico.
Contemporaneamente, la persona perde ancor di più la capacità di giudicarsi, cioè se a cose normali riesce a farlo “a freddo” ogni tanto, in queste condizioni tende a non capire in che direzione il disturbo lo sta portando, e quindi tende a non criticare i meccanismi del disturbo ma anzi ad andarvi dietro.

Tecnicamente si chiama “insight”, cioè introspezione, la capacità di guardarsi dentro senza però doversi distaccare come accade nella dissociazione, cioè avere coscienza dei meccanismi che ci muovono “dall’interno”.

L’insight corrisponde quindi ad un dubbio sull‘impressione che abbiamo, che ci porta a osservare i nostri comportamenti e a giudicare in base a quelli, piuttosto che non all‘interpretazione che ci sembra più piacevole o intuitiva. E’ quella capacità che ci consente una via d’uscita dalla cecità sul proprio cervello, quella capacità che ci permette di lasciarci educare, allenare e persistere in direzioni che ci sembrano assurde o addirittura sbagliate, salvandoci dalle rigidità e dai sensi unici che il cervello ha piazzato.

Osservatore ed osservato: il rapporto psichiatra e paziente
Ogni personalità ha i suoi sensi unici e i suoi vicoli ciechi, e i disturbi in genere partono da questi per accentuarli. Esiste un tipo di scambio tra psichiatra e paziente in cui, oltre a provvedere alla cura del disturbo, si guida il paziente ad adattarsi alla cura, ai suoi scopi e a riconoscerne gli effetti ancora prima che siano evidenti o soddisfacenti.

In generale, il paziente lamenta dei sintomi e chiede la loro risoluzione, possibilmente stabile nel tempo, o definitiva. Il processo che porta a questi risultati non procede però come il paziente crederebbe logico, e spesso si innescano dubbi, resistenze e equivoci. E’ come, per fare un esempio, se il paziente fosse un viaggiatore che sale in taxi, indica l’indirizzo ma poi ha l’impressione che il taxista stia andando nella direzione sbagliata, completamente fuori zona. A questo punto chiederà di scendere, o pretenderà di indicare la direzione giusta al taxista, o quantomeno si inquieterà.

Auto-analisi sbagliate molto comuni sono ad esempio:

la negazione della propria diagnosi con ricerca di diagnosi molto particolari o diverse
la convinzione che assecondando in maniera efficace i sintomi (es.preoccupazioni) si risolva la situazione
la convinzione che il proprio livello di intelligenza consentirà meglio la gestione della malattia fino ad una soluzione
la convinzione che la malattia derivi da agenti esterni che la sostengono o l’hanno causata anche anni addietro.

Riportiamo alcuni esempi:

La persona con ossessioni ad esempio, chiederà di esserne liberato. Allo stesso tempo però vivrà con disagio la cura pensando che, senza le sue ossessioni, non abbia il controllo della propria vita. In altre parole si innesca una resistenza basata sul punto di vista di una persona con le ossessioni, ovvero controllarle nella maniera migliore.
Banalmente, una persona ipocondriaca pretenderà di essere rassicurato sulla propria salute o sui farmaci, e vivrà male risposte che gli negano questa rassicurazione, pensando che una cura comunque deve soddisfare prima questa necessità di chiarezza e rassicurazione, anche se ossessiva, poi procedere in qualche modo verso l’obiettivo.
Lo psichiatra cercherà invece di educare il paziente a tener presente che il meccanismo delle ossessioni non va assecondato, semplicemente perché questo, oltre ad essere inutile, può interferire con le decisioni da prendere e il prosieguo della cura stessa.

La persona depressa chiederà di essere curata, ma esprimerà sfiducia nella cura, quasi cercando di scoraggiare il medico a curarlo. Anche se informato di pazientare qualche settimana, dopo i primi giorni ripeterà il suo star male, semplicemente perché la depressione lo obbliga a questa ripetitività e a questo pessimismo. Se il medico scambiasse questo per sfiducia o scarso coinvolgimento nella cura, nessun depresso vero potrebbe esser curato.
Il medico deve invece separare la visione dichiarata dal paziente dalla sua, per rinforzare nel paziente l’idea che il medico conosce un’altra via, per quanto poco comprensibile o inizialmente “misteriosa”, per raggiungere una soluzione.

La persona con disturbo bipolare lamenterà gli effetti di una instabilità umorale, capirà razionalmente che per risolvere la situazione occorrono almeno diverse settimane, se non mesi, ma poi dopo pochi giorni riferirà i cambiamenti umorali, identici a quelli che aveva prima, pretendendo di trarre conclusioni.
Se sta meglio, si complimenterà o si compiacerà del fatto, se sta come prima dichiarerà che la terapia “non funziona”, se sta peggio penserà che il dottore ha sbagliato perché doveva star meglio e invece sta accadendo il contrario.
Inevitabilmente il punto di vista del disturbo lo porterà a ritenere di aver bisogno che lo “tiri su” e dirà che i farmaci se li sente “subito” se funzionano o meno. In questo arriverà a pretendere di usare un parametro instabile come l’umore del momento per giudicare se la direzione della cura è quella giusta, rischiando di sbagliarsi sia in positivo (se sta subito meglio) sia in negativo (se non sta ancora bene).
La persona bipolare negherà di avere un disturbo bipolare, poiché l’euforia è vista come la via d’uscita, o comunque una condizione preferibile, e le fasi eccitate non euforiche (con umore non buono) non sono considerate come indice di bipolarità. Si crea una sterile contrapposizione in cui il medico sembra dire al paziente “se sei bipolare sei anche euforico” e il paziente ribadisce che “non è mai di umore buono come vorrebbe, quindi è depresso”.

Psicoeducazione: capire i propri disturbi

Infine, uno stesso disturbo (ad esempio depressione) può essere vissuto in maniera diversa a seconda del tipo di personalità, cosicché a volte alcuni tipi di personalità peggiorano alcuni aspetti del disturbo centrale, per esempio la capacità di chiedere aiuto, la capacità di lasciar gestire il problema agli altri, la tendenza a colpevolizzarsi o responsabilizzarsi.

In sintesi, le cure psichiatriche agiscono spesso in maniera graduale, correggendo il punto di vista stesso del disturbo e facendo scoprire alla persona un nuovo punto di vista che neanche si immaginava o si ricordava possibile.

La soluzione non sta dove il paziente ossessivo insiste, ritenendosi sottovalutato o non considerato con rispetto se viene contraddetto. La soluzione c’è nonostante il “niente” che riempie la prospettiva del paziente depresso. E non coincide con l’intuizione che il paziente bipolare si vanta di avere, e di cui è convinto ogni volta senza accorgersi di oscillare tra fiducia e sfiducia come in un altalena.

La psicoeducazione è quella modalità di interazione con il malato che gli insegna, non tanto prima, in linea teorica, ma durante la cura a riconoscere in che direzione si sta muovendo.
Di solito nella fase iniziale ci saranno resistenze o tendenze da respingere o discutere, e il paziente potrà avere l’impressione sgradevole di non “guidare lui” o di non contribuire alle decisioni con il proprio intuito o il proprio ragionamento.

Tutto ciò è a garanzia della riuscita di una cura che non potrebbe avere le sue basi nelle convinzioni sbagliate indotte da un determinato stato mentale. Se c’è infatti una cosa su cui in genere i disturbi mentali tolgono consapevolezza è proprio

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Pacini
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